I cattivi esempi sono molto più contagiosi di quelli buoni. Un rapporto dell’Institute for the Future di Palo Alto segnala che il ricorso ai social media per (dis)informare e influenzare l’opinione pubblica è in rapida diffusione, da parte dei governi di mezzo (e più) Mondo. Di per sè, nulla di male. Il fatto è che il ricorso ai social sconfina nella tentazione di diffondere fake news, tramite ‘troll di Stato’, direttamente dipendenti dai governi o da essi sostenuti; magari con la scusa, alla Donald Trump, d’antagonizzare i ‘fake news media’, che sarebbero media autorevoli che scovano e danno notizie sgradite (ai potenti, non al pubblico).
Il fenomeno, che ha padrini illustri – la Russia delle ingerenze nelle elezioni altri e gli Usa dell’ ‘untore in capo’ di post-verità -, va, secondo gli analisti californiani, dall’India a Malta, non risparmia nessun continente e non è prerogativa né dei ricchi né dei poveri (e non è neppure un’esclusiva delle aperte dittature o delle ‘democrazie autoritarie’ ). Usando account coperti e coordinando legioni di followers, i governi rendono estremamente difficile distinguere tra quello che è un sentire genuino dell’opinione pubblica e quello che è l’effetto di troll sponsorizzati.
Il documento dell’Istituto di Palo Alto individua tre tipi di presenza governativa nelle fake news: diretta, con la gestione degli attacchi; coordinata (i governi danno le indicazioni, altri le eseguono, come starebbe avvenendo ad esempio in Ecuador e in Venezuela); istigata (negli Usa, media o fonti vicini all’Amministrazione Trump, come Breitbart, o influencer, segnalano pubblicamente ai troll chi colpire). Fra gli effetti della ‘fake news di Stato’ e delle campagne di disinformazione sui social pilotate dal potere, vi sono “l’autocensura dei giornalisti, arresti e persino omicidi delle persone oggetto degli attacchi mirati”.
Negli Stati Uniti, molti s’interrogano sulla natura e sugli effetti delle campagne social, nel momento in cui i rapporti tra il presidente e i giornalisti, tra la Casa Bianca e la libera stampa, non sono mai stati così cattivi: fra le tante prove, il libro di Bob Woodward, uno degli artefici del Watergate, ‘Paura’; e la decisione del New York Times di pubblicare la testimonianza anonima di un artefice della “resistenza silenziosa” che dentro l’Amministrazione lavora per limitare i danni del presidente.
Campagne velenose, privacy tradita, degrado del clima sono alcuni degli elementi che hanno spinto Maggie Haberman, firma del New York Times, a divorziare da Twitter, dopo nove anni e 187 mila messaggi – una media da 50 al giorno: roba da assuefazione, a dire il vero -. Nell’addio pubblicato sulla ‘Week in Review’ domenicale, Maggie osserva che su Twitter “la cattiveria, la tossica rabbia di parte, la disonestà intellettuale e il sessismo sono al massimo”. “E’ diventato un posto . aggiunge – dove la gente esacerbata va a cercare motivi per alimentare la sua rabbia, dove il sottobosco della libertà d’espressione si manifesta nel modo più livido”, “un videogioco arrabbiato”, “la piattaforma in cui la gente si sente libera di dire cose che non direbbe mai in faccia ad un altro”.
L’addio della giornalista, che, come cronista della Casa Bianca continuerà, però, a utilizzare Twitter per seguire Trump, che quasi solo lì s’esprime, ha suscitato nel ‘gran capo’ del social Jack Dorsey una risposta comprensiva: “Le sue critiche hanno un senso. Dobbiamo essere più attenti a creare contesto e credibilità”.