Una promessa elettorale 2016 mantenuta e soprattutto la speranza d’un voto in più il 6 novembre nelle midterm elections valgono bene un sacco di dazi alla Cina, nel segno di quell’ ‘America first’ che è il motto caratterizzante la presidenza Trump. La tempesta scatenatasi sull’import Usa dalla Cina suscita presagi negativi per l’import dall’Ue, nonostante la tregua dichiarata il 25 luglio dopo l’incontro tra Donald Trump e il presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker (tregua che Trump ha già minacciato d’infrangere, avendo sempre di mira le auto europee, specie quelle tedesche).
Le mosse commerciali dell’Amministrazione statunitense sembrano suggerite, in questa fase, più da valutazioni di opportunità politica interna che da visioni internazionali. Trump è impegnato quasi ogni giorno nella campagna per le elezioni di midterm: i repubblicani rischiano di perdere la maggioranza alla Camera e non sono sicuri di mantenere quella al Senato.
Pur influenzato da tutta una serie di fattori locali, il voto di novembre è una sorta di referendum sulla prima metà del mandato presidenziale: una batosta complicherebbe la seconda metà, galvanizzerebbe i democratici – in cerca di leader verso Usa 2020 – e potrebbe persino riaprire i giochi fra i repubblicani, dando voce a quanti nel partito sono critici verso Trump, ad esempio proprio sul fronte commerciale, e ne temono l’impulsività e l’imprevedibilità.
Chi tocca i dazi muore, o almeno se ne va
Nell’Amministrazione, c’è chi cerca di riportare il presidente magnate a più miti consigli. Ma mentre Trump appare finora disposto ad accettare le censure militari al suo operato (il segretario alla difesa Jim ‘cane pazzo’ Mattis è sempre al suo posto), i paletti diplomatici e quelli economici e commerciali sono meno tollerati: tutto lo staff di politica estera è cambiato – siamo già al terzo consigliere per la sicurezza nazionale – e il consigliere economico Gary Cohn se n’è andato specie per divergenze sui dazi.
L’ultima ondata di limitazioni commerciali s’è abbattuta sulla Cina quasi contemporaneamente all’arrivo del tifone Mangkhut, che ha fatto vittime e milioni di evacuati nel Guangdong: lunedì 17 settembre, l’Amministrazione Trump ha formalizzato nuovi dazi per un valore di 200 miliardi di dollari sui prodotti Made in China – circa la metà di tutto l’import di beni cinesi negli Usa -.
Le nuove sanzioni contro Pechino erano state annunciate dal successore di Cohn, Larry Kudlow, e dallo stesso Trump, insoddisfatto dell’andamento dei negoziati commerciali con la Cina tuttora in corso. Analoga minaccia l’Amministrazione ha fatto, giorni fa, verso l’Ue: imporre dazi, nonostante le trattative in atto. I freni all’import sono spesso studiati per favorire l’industria manifatturiera statunitense; ma le contromisure dei partner colpiscono l’agricoltura e altri settori produttivi americani: la speranza di Trump è che la bilancia elettorale di queste schermaglie commerciali, che possono diventare vere e proprie guerre, su un doppio fronte, gli sia favorevole.
Una scommessa con tanti rischi
Scrive sull’ANSA Ugo Caltagirone: quella del presidente “è una scommessa: che la maggioranza degli americani lo appoggi nella sua battaglia in nome dell’America First e sia disposta a pagare di più alcuni prodotti pur di ottenere agli Usa importanti concessioni commerciali dalla Cina”. Seguiamo, di qui in avanti, la traccia dell’agenzia su provvedimenti appena ufficializzati.
Le nuove tariffe scatteranno il 24 settembre e sono fissate al 10% fino alla fine dell’anno, quando, in assenza di progressi soddisfacenti nelle trattative commerciali, aumenteranno al 25%.
Con la stangata di lunedì, sale a 505 miliardi di dollari l’ammontare di prodotti Made in China colpiti dai dazi dell’Amministrazione Trump. Tra i beni di consumo interessati, i condizionatori d’aria, le candele di accensione dei motori, il mobilio e le lampade. Risparmiati al momento prodotti molto popolari come quelli della Apple – vedi l’Apple Watch e gli AirPods prodotti e assemblati in Cina -, dopo che nelle scorse settimane i vertici dell’azienda di Cupertino avevano già lanciato l’allarme su un aumento dei prezzi conseguente.
E’ un timore avvertito da molti consiglieri della Casa Bianca, preoccupati di misure impopolari e controproducenti, a sette settimane dalle elezioni di midterm e nell’imminenza della stagione degli acquisti per il Ringraziamento e Natale.
La Cina nei giorni scorsi – di fronte alla minaccia ora tradotta in pratica da Trump – aveva già prospettato rappresaglie per 60 miliardi di dollari su prodotti Made in Usa e lo stop al dialogo. Washington aveva subito rilanciato, ipotizzando dazi sull’import cinese per ulteriori 267 miliardi di dollari. A quel punto, ogni prodotto cinese importato in Usa sarebbe soggetto a extra-tariffe.
Il rischio è quello di una guerra commerciale senza quartiere con conseguenze globali sull’economia e sui mercati finanziari. Ma il duo Trump – Kudlow, nelle intenzioni e fin qui anche nei fatti, non intende frenare l’offensiva contro il ‘Made in China’: “Non c’è alcun segnale che i dazi stiano costituendo un problema per l’economia”, dice Kudlow, auspicando comunque un “dialogo serio” con i negoziatori cinesi. Quanto alle critiche e le perplessità di molte aziende come l’Apple, Trump ha una risposta pronta: che tornino a produrre in Usa; e non avranno nulla da temere per le loro vendite. Tanto, la California è elettoralmente perduta: le midterm si giocano nella Rust Belt e nella Bible Belt, dove i votanti hanno mani callose e non schiribizzi liberal.