Vent’anni dopo, la storia della crisi economica argentina pare ripetersi, o quasi. E di mezzo c’è stata la Grande Crisi del 2008, che ha colpito tutta l’America latina, come il resto del Mondo. Stavolta, il tracollo si profila mentre l’Argentina presiede il G20, il Gruppo dei Paesi più ricchi e più influenti, e s’appresta a ospitare in novembre il Vertice dell’Organizzazione, presente fra gli altri il presidente degli Stati Uniti Donald Trump. Ad accogliere i leader e a ritmarne gli incontri, rischiano di essere i concerti di pentole che sono la tradizionale colonna sonora delle proteste popolari argentine.
C’è da sperare che la prova sia meno devastante di quella a cavallo del secondo millennio e che le politiche messe in atto per attenuarne l’impatto e uscirne in fretta siano efficaci. Da quasi un quarto di secolo l’Argentina – 45 milioni di abitanti su una superficie nove volte l’Italia – vive sulla faglia di un terremoto economico e finanziario, nonostante il potenziale naturale, agricolo e industriale.
Le difficoltà economiche e finanziarie argentine sono un altro tassello del momento difficile dell’intero continente: il Brasile nelle more di elezioni turbate da attentati politici e dall’esclusione, per via giudiziaria, del candidato più popolare e più carismatico, l’ex sindacalista ed ex presidente Luis Inacio Lula da Silva; il Venezuela nella morsa tra dittatura popolare e penuria alimentare; Colombia, Ecuador e Perù che, con il Brasile, devono gestire il flusso di migranti dal Venezuela. E siamo al tramonto di modelli a lungo di riferimento per la sinistra internazionale, come castrismo e chavismo.
Pure in Argentina come in Brasile, la transizione da una presidenza all’altra ha strascichi giudiziari, con, in questo caso, protagonista o vittima Cristina Kirchner, presidente per due mandati e moglie d’un presidente – da Peron in poi, gli argentini paiono avere un debole per le famiglie presidenziali -. La crisi della nazionale di calcio, certificata dai Mondiali di Russia, è un altro aspetto del disagio d’un’intera nazione, mentre la morte di Maria Mariani, una delle fondatrici delle Nonne di Plaza de Mayo, segna l’uscita di segna d’una generazione testimone della dittatura militare.
La crisi che fu – Sul finire del XX Secolo, i presidenti Menem e de la Rúa dovettero fronteggiare una diminuita competitività delle esportazioni (dovuta alla forzata parità del peso con il dollaro), con conseguenti massicce importazioni a danno dell’industria nazionale e negative ripercussioni sull’occupazione, e un deficit fiscale e commerciale cronico. Il contagio della crisi finanziaria asiatica del 1998 causò una fuoriuscita di capitali che sfociò nella recessione e, nel novembre 2001, culminò nella crisi economica argentina.
Un mese dopo, le pesanti rivolte scatenatesi in tutto il Paese costringevano de la Rúa a dimettersi. Nel giro di due settimane, quattro presidenti s’avvicendarono l’uno dopo l’altro, fino alla nomina ‘ad interim’ di Eduardo Duhalde da parte dell’Assemblea legislativa il 2 gennaio 2002.
L’Argentina fu costretta ad ammettere la manifesta impossibilità di fare fronte agli impegni economici presi con gli altri Stati. L’ancoraggio del peso al dollaro, ormai anacronistico, fu abbandonato, con il risultato che il peso crollò ai suoi valori reali, perdendo in pochi giorni un terzo del valore iniziale e innescando un picco di inflazione. La crisi provocò per mesi un blocco quasi totale dell’economia, con un drammatico aumento dei disoccupati e dei poveri e un’allarmante instabilità sociale.
Verso la fine del 2002, l’economia cominciò a stabilizzarsi. Quando, nel 2003, fu eletto presidente il peronista Néstor Kirchner il peggio pareva passato: ristrutturazione del debito in default e accordi con l’Fmi, misure finanziarie talora sgradite ai creditori internazionali, il colpo di fortuna del ‘boom della soia’, tutto ciò innescò crescita economica e forte flusso di valute straniere.
Cristina Kirchner, succeduta al marito nel 2007 e confermata nel 2011, deve però affrontare la crisi del 2008 e conduce il Paese a un nuovo ‘default’, il secondo in un decennio.
L’appoggio di Trump e delle organizzazioni internazionali – Alle elezioni presidenziali del 2015 il candidato peronista Daniel Scioli, appoggiato dalla Kirchner, viene sconfitto da Mauricio Macri, origini italiane e ispirazione più liberista. Le riforme finanziarie conquistano al governo la fiducia delle organizzazioni mondiali, come il Fondo monetario internazionale, ma non evitano all’Argentina di ritrovarsi sulla soglia del baratro.
“L’Argentina ha il pieno appoggio del Fondo”, dice il portavoce dell’Fmi Gerry Rice, mentre sono in corso a Washington trattative con le autorità argentine. Per fare fronte alle tensioni sui mercati, Buenos Aires chiede che il Fondo acceleri i pagamenti previsti dal piano di salvataggio concordato da 50 milioni di dollari. Ed anche l’Amministrazione Trump guarda con favore e condiscendenza alla presidenza Macri.
Ma l’ottimismo non è unanime. Il Nobel per l’Economia Joseph Stiglitz, spesso contro corrente, è preoccupato per la direzione presa dalla crisi in Argentina e pensa che, per evitare guai maggiori, bisognerebbe pensare già ora a “una ristrutturazione del debito” o magari a “un alleggerimento”, “tramite una riduzione” dell’esposizione finanziaria. Stiglitz chiama in causa Macri e i suoi errori, che implicano una svalutazione della moneta, a fronte di un’inflazione altissima e di tassi d’interesse al 60%, i più elevati al mondo.
Le ricette del presidente – In un discorso la scorsa settimana, il presidente non ha fatto mistero della gravità della situazione: la crisi è un fatto e il mix di svalutazione e inflazione produce povertà. Ma le misure applicate – dice Macri – “daranno presto i loro frutti” (sempre che l’Fmi faccia la sua parte).
In uno dei suoi discorsi più lunghi – 22 minuti – da quando s’è insediato nella Casa Rosada, Macri, che non ha certo l’oratoria fluviale di un Castro o di un Chavez, s’è rivolto, più che ai mercati, agli argentini: “Stiamo cambiando le cose alla radice, senza semplificazioni, per riprendere un cammino di crescita rapido, non di breve periodo, ma permanente”, per allontanarsi dalla faglia del terremoto.
Le parole del presidente non hanno però frenato la corsa al dollaro degli operatori finanziari, che spinge in basso il peso.
Al centro di quella che il capo dello Stato definisce una battaglia, c’è un concetto fondamentale: “Non possiamo spendere più di quello che abbiamo”, un riferimento alle politiche populiste praticate dai suoi due predecessori, i Kirchner, che “ci hanno lasciato una pesantissima eredità”.
Le politiche di “sperpero delle risorse pubbliche” e “la vasta corruzione che le ha accompagnate”, secondo Macri, “ci stavano portando a essere un altro Venezuela”: un rischio che il presidente considera “evitato”. Ma per risanare l’economia in tempi più rapidi di quanto inizialmente previsto, il governo vuole raggiungere già l’anno prossimo un equilibrio primario del bilancio statale.
Lo scenario da migliorare prevede la caduta del Pil del 2,4% e un’inflazione del 42% quest’anno, una crescita zero e un’inflazione del 25% nel 2019. Per ridurre a zero il 2,6% di deficit finora calcolato per il 2019, il governo Macri intende muoversi lungo tre assi: l’aumento delle entrate, introducendo una tassa transitoria di quattro pesos per dollaro (fino a dicembre 2020) sull’export agroalimentare (soia e frumento) e di tre pesos sull’export delle altre materie prime; una riduzione della spesa pubblica (minori investimenti e sospensione di sussidi assistenziali); e un taglio ai ‘costi della politica’, con il dimezzamento dei ministeri da venti a dieci.
Per il momento, però, non vi sono stati avvicendamenti di ministri significativi. Il responsabile dell’Economia Nicolas Dujovne, con il presidente della Banca centrale, Dante Caputo, sta conducendo la trattativa con l’Fmi. L’obiettivo è convincere Christine Lagarde e il suo staff che l’obiettivo di accelerare la cancellazione del deficit fiscale primario argentino già nel 2019 è realistico, così da sbloccare subito le tranches del prestito ‘stand by’ di 50 miliardi di dollari ipotizzate per gli anni 2020 e 2021. In tal caso, l’Argentina non dovrebbe più indebitarsi ulteriormente sui mercati e le prospettive finanziarie migliorerebbero. Per la gente, invece, tutto ciò significa sacrifici e ancora ‘ vacche magre’ nel Paese per antonomasia degli allevamenti bovini più floridi. E, infatti, i sindacati convocano per il 25 settembre uno sciopero generale.