La marea populista e xenofoba, sovranista e nazionalista, che sta montando nell’Unione europea, non sommerge la Svezia: i Democratici svedesi (SD) di Jimmie Akesson crescono, ma non diventano il primo partito, come speravano, e non superano il 20%, com’erano praticamente sicuri di fare.
Nelle elezioni di domenica 9 settembre, restano il terzo partito e si fermano sotto il 18%: ottengono il voto d’uno svedese su sei. Gli altri scelgono forze che, a titolo diverso, vogliono restare nell’Ue e portare avanti il modello di welfare e accoglienza che contrassegna il Paese nordico.
I socialdemocratici si confermano il primo partito – lo sono da oltre un secolo -, anche se realizzano il loro peggior risultato con il 28% dei suffragi: i moderati restano la seconda forza, sotto il 20%. Nel Riksdag, il Parlamento svedese, il blocco di centrosinistra (socialdemocratici, verdi, sinistra) ha il 40,6% dei voti e 144 seggi; quello conservatore, l’Alleanza che fa perno sui Moderati, il 40,3% e 143 seggi. Gli SD hanno il 17,6% e 62 seggi (ne avevano 49).
Bene sono andati alcuni partiti minori, come la Sinistra degli ex comunisti, che quasi raddoppia i suffragi e sfiora il 10%; o il Centro e i cristiano-democratici. C’è, in Svezia come altrove nell’Ue, un appannamento dei maggiori partiti e un quadro politico in evoluzione verso nuovi equilibri.
Il nodo del governo: schermaglie e negoziati
Per il premier socialdemocratico uscente, Stefan Lovfen, le elezioni di domenica devono costituire “il funerale della politica a blocchi” contrapposti centrodestra-centrosinistra; e i populisti xenofobi “non hanno nulla da offrire”, in vista della formazione del governo, “tranne divisione e odio”.
Secondo Lovfen o il centrodestra, guidato dal partito dei Moderati, gli viene incontro per formare “un governo forte”, che sappia arginare gli estremismi, o dovrà governare la costellazione politica che ha più voti. Il leader dei Moderati, Ulf Kristersson, invita invece Lofven a dimettersi, e dice d’aspettarsi il mandato per formare un governo.
Scaramucce, in attesa delle trattative per cercare una maggioranza o per mettere in piedi, come non è inusuale in Svezia, un governo di minoranza. Prima delle elezioni i due maggiori blocchi s’erano entrambi impegnati a non fare alleanze con i sovranisti e nazionalisti, anche se, nel centro-destra, c’è chi pensa che sia meglio coinvolgerli piuttosto che isolarli.
Un elettorato in fermento
Il voto svedese stempera, in parte, le ansie europee per l’avanzata di forze euroscettiche, populiste e xenofobe, sovraniste e nazionaliste, ma non fornisce indicazioni inequivocabili sulla formazione del nuovo governo, che dovrà essere necessariamente di coalizione – gli svedesi ci sono abituati – e che potrebbe essere di minoranza – anche questa non sarebbe una novità -. L’ipotesi di una Swedix, cioè di un’uscita della Svezia dall’Ue, caldeggiata dagli SD, è scongiurata, almeno per questa legislatura.
Secondo le indicazioni raccolte dalla tv di Stato svedese, ben il 41% degli elettori, due su cinque, hanno cambiato la loro scelta, rispetto al voto del 2014, e il 38% ha deciso il suo voto al momento d’esprimerlo (pure quattro anni fa erano stati molti, il 33%). La giornata elettorale, con un’affluenza ai seggi elevata com’è tradizione, è stata segnata dalla presenza – senza precedenti – d’osservatori dell’Osce, sollecitati, forse, da una campagna aspra in gran parte incentrata sull’immigrazione e segnata da episodi di violenza, oltre che da asserite minacce di morte a Jimmie Akesson, il leader degli SD, ‘firmate’ dall’Isis.
La questione dei migranti
Con dieci milioni di abitanti – un sesto dell’Italia – e con una superficie una volta e mezzo l’Italia -, la Svezia è da sempre e di gran lunga il Paese Ue che accoglie il maggior numero di rifugiati ed è anche in testa alle classifiche della redistribuzione dei migranti dall’Italia – dati pro capite -. Ma difficoltà d’integrazione emerse negli ultimi tempi e sfociate in episodi di criminalità e di violenza, specie a Malmoe e a Stoccolma, strumentalizzati dalla destra xenofoba e neo-nazista, hanno inciso sul clima sociale e modificato il quadro politico. S’avverte anche l’influenza di quanto avviene nei Paesi vicini: ci sono i Veri Svedesi, come i Veri Finlandesi, e c’è un’Alternativa per la Svezia, come l’Alternativa per la Germania.
Il punto di svolta è stato il 2015, l’anno che il flusso di migranti verso l’Ue fu maggiore, l’anno che Angela Merkel aprì le porte della Germania a un milione di siriani: i 163 mila rifugiati accolti allora in Svezia – dopo, non hanno più superato i 25mila l’anno – hanno spinto una parte dell’elettorato svedese verso i Democratici svedesi (SD), un partito che ha affinità con movimenti neo-nazisti. Il leader Akesson ha però cercato di ammorbidirne l’immagine, pur rompendo i tabù sottaciuti nei discorsi pubblici su immigrazione e integrazione.
Il contesto europeo
Rispetto al linguaggio d’un Salvini in Italia o d’una Le Pen in Francia, Akesson, ora, è un moderato: ha cambiato logo e colori ‘sociali’, adottando la margherita e il giallo-blu della bandiera nazionale. Ma in Svezia, a destare disagio, basta una frase come quella pronunciata nell’ultimo acceso dibattito televisivo, venerdì 7 settembre: gli immigranti non trovano lavoro “perché non si sanno adattare”. L’emittente Svt ha preso le distanze, definendo l’affermazione “degradante e non democratica”.
Il programma politico degli SD prevede, fra l’altro, un referendum ‘alla inglese’ per uscire dall’Ue, la Swexit, e il dirottamento dei soldi per l’accoglienza al sistema sanitario nazionale, la priorità degli elettori, abituati a un welfare modello di riferimento mondiale. Difficile che gli SD approdino al governo, anche se Akesson assicura che sapranno condizionare le scelte del Paese, mai così polarizzato, nonostante la crescita economica sia buona e il tasso di disoccupazione basso, al 6%.
Uno scenario del genere, nella Svezia campione europeo e mondiale di tolleranza e di accoglienza, crea allarme a Bruxelles, ma anche a Parigi e a Berlino, specie in proiezione delle elezioni europee del maggio 2019, perché la galassia euro-scettica e xenofoba, nazionalista e sovranista, s’allarga: l’asse Le Pen – Salvini ha sponde in Belgio e Olanda, in Germania e Austria, in Svezia e al Nord, nei Paesi di Visegrad e in Croazia, e intacca anche famiglie politiche tradizionalmente europeiste (Fidesz, il partito del premier ungherese Viktor Orbàn è nel Partito popolare europeo della Merkel). Né s‘intravede un argine che ne possa fermare l’avanzata di qui al maggio prossimo, nonostante Macron e la Merkel, che si sono visti a Marsiglia prima del voto svedese, vogliano consolidare l’arco europeista-progressista e se ne propongano come punti di riferimento.