Respingimenti, rimpatri, ricollocazioni: causa l’inasprirsi della crisi in Venezuela, l’America latina si familiarizza con il linguaggio che l’Europa ha imparato negli anni della crisi migratoria e che continua a parlare, sotto la pressione dei movimenti xenofobi e sovranisti, che fanno un’emergenza di flussi a bassa intensità.
In America latina, la crisi politico – economica venezuelana è vera, acuta e tangibile e precipita nell’emergenza umanitaria. Le Nazioni Unite calcolano che una marea umana di almeno 1,6 milioni di venezuelani disperati – e c’è chi ne calcola 2,3 milioni – si è già riversata nei Paesi vicini, al ritmo di 2/3.000 passaggi al giorno ai valichi di confine. Il peso maggiore è su Colombia a ovest e Brasile a sud, mentre Ecuador e Perù hanno di fatto chiuso le frontiere: l’Organizzazione internazionale delle migrazioni (Oim) e l’Alto commissariato per i rifugiati (UnHcr) stimano che la situazione comincia ad assomigliare a quella del Mediterraneo, con numeri di transito che ricordano il 2015, l’anno in cui funzionava pure l’ ‘autostrada dei Balcani’.
Come se non bastasse, ad alimentare tensione e disagio mercoledì 22 il Venezuela è stato investito da un forte terremoto di magnitudo 7,0, con una replica a 5,8, i cui danni sono però stati contenuti. E, all’inizio di agosto, c’erano stati il presunto fallito attentato con un drone al presidente Maduro e blackout attribuiti dal governo a sabotaggi.
Rimpatri dal Perù, ricollocazioni in Brazile; e la Colombia lascia l’UnaSur – Il Venezuela è grande tre volte l’Italia – oltre 900mila kmq – ed ha la metà degli abitanti, poco più di 30 milioni: una persona su 15 è già scappata da un Paese ricco di risorse energetiche e naturali, ma investito dalla crisi dopo vent’anni di ‘chavismo’. Masse di persone restano addossate ai confini: scene simili a quelle di un paio di anni fa in Europa, alle frontiere croate o ungheresi, lungo la rotta balcanica.
Questa settimana, un centinaio di venezuelani, una minima parte del mezzo milione giunto in Perù, sono rientrati da Lima a Caracas, con un aereo inviato loro dal presidente Nicolás Maduro, nell’ambito del programma ‘Torna in Patria’ che prevede sostegno economico per chi ritorna e aiuto per cercare un lavoro. Dal 25 agosto, pure il Perù, dopo l’Ecuador, ha irrigidito le regole d’ingresso dei venezuelani sul proprio territorio, esigendo la presentazione di un passaporto e non più solo d’una carta d’identità.
Contemporaneamente, il governo brasiliano ha annunciato la ricollocazione di 270 venezuelani dallo Stato amazzonico di confine di Roraima in sei città del resto del Paese, fra cui San Paolo, Manaus e Joao Pessoa, come parte di un processo di “internalizzazione” (trasferimento interno). Obiettivo: decongestionare la situazione alla frontiera con il Venezuela. Da settembre, si prevede prevede l’invio di circa 1.600 venezuelani al mese in diverse aree del Brasile.
Il governo dello Stato di Roraima, dove si sono stabiliti circa 30.000 immigrati, ha sollecitato, ma non ha ottenuto, la chiusura della frontiera con il Venezuela, ha limitato le cure mediche ai rifugiati e ha chiesto a Brasilia un piano di ricollocazione.
In Brasile e in Colombia, c’è il timore che venezuelani disperati finiscano col fornire manovalanza ai narcos. E i media locali citano episodi di razzismo e intolleranza, con attacchi ad accampamenti di migranti per costringerli a tornare indietro.
Intanto, la Colombia, che ha un nuovo presidente, Ivan Duque Marquez, ha formalizzato l’uscita dall’Unione delle Nazioni sudamericane (Unasur) che avverrà entro sei mesi. Fra le cause addotte, c’è il fatto che l’Unasur abbia scelto “il silenzio e molte volte la complicità” sul “trattamento brutale della dittatura del Venezuela nei confronti dei suoi cittadini”.
Frutto di un trattato firmato a Brasilia il 23 maggio 2008, la Unasur, formata da 12 Stati (Argentina, Bolivia, Brasile, Cile, Colombia, Ecuador, Guyana, Paraguay, Perú, Surinam, Uruguay e Venezuela), è operativa dal marzo 2011 e vuole costruire identità e cittadinanza sudamericane e sviluppare uno spazio regionale integrato Dopo le elezioni vinte da esponenti conservatori in vari suoi Paesi membri, la Unasur, che ha la sua sede a Quito, ha perso molto slancio ed è attualmente un organismo quasi paralizzato.
La crisi e le sue ragioni, secondo l’Onu – Per l’Oim, fra le ragioni della crisi venezuelana c’è l’implosione d’un Paese già ricco e prospero, la repressione della protesta sociale, la recessione che dura da cinque anni, l’iperinflazione, la carenza di beni di prima necessità: tutto ciò “causa una crisi che abbiamo già visto in altre parti del mondo, in particolare nel Mediterraneo”, ha detto a Ginevra il portavoce dell’agenzia Onu Joel Millman.
Il 90% dei venezuelani in fuga dal loro Paese si è riversato negli Stati vicini, Colombia, Brasile, Perù, Ecuador; solo una minoranza ha puntato sugli Stati Uniti o altrove. I Paesi dell’area si riuniranno la prossima settimana a Bogotà per coordinare le loro azioni, ma le agenzie Onu fanno appello a lasciare aperte le frontiere. Chiara Cardoletti, dell’Unhcr, dà atto che i Paesi che hanno finora accolto profughi venezuelani hanno permesso di “evitare una situazione alla europea”.
Ma la chiusura di fatto delle frontiera e con Ecuador e Perù modifica il quadro, anche se il governo di Lima ha precisato che saranno esentati dall’obbligo di passaporto malati, donne incinte e minori che cercano di ricongiungersi ai familiari. Il Perù, che è il Paese più attrattivo per i ritmi di crescita della sua economia, è anche il transito di chi aspira ad arrivare in Cile e Argentina.
I media locali riferiscono di pullman, organizzati dal governo ecuadoregno per fare transitare il più venezuelani possibile (entrati in Ecuador dalla Colombia) verso il Perù: un “corridoio umanitario”, ma anche una forma di ‘scarica barile’.
Un piano di ripresa economica – Per far fronte alla crisi, il presidente Maduro ha varato un ‘piano di ripresa economica’ con l’introduzione, fra l’altro, del nuovo ‘bolívar sovrano’ ma la situazione resta grave e il rischio resta alto, anche per le imprese italiane esposte in Venezuela, una ventina secondo la Farnesina. Eni, Agip, Pirelli, Parmalat, Astaldi, Impregilo e varie altre stanno vagliando gli eventi.
La radicale riforma del sistema finanziario ed economico prevede la sostituzione del ‘bolívar forte’ con il ‘bolívar sovrano- cinque zeri in meno -, che il governo spera possa contribuire a strangolare l’iperinflazione. La complessa manovra comporta, inoltre, un forte aumento del salario minimo (oltre 35 volte), dell’Iva (dal 12 al 16%) e della benzina e una flessibilità sul mercato dei cambi – il ‘bolívar sovrano’ è ancorato alla criptomoneta Petro garantita dalle riserve petrolifere venezuelane -.
Per avviare senza traumi la riforma lunedì 20 è stata “giornata non lavorativa”. Il presidente Maduro minaccia di arresto i commercianti speculatori e assicura di aver individuato una formula “che mette il lavoro al centro, per un riequilibrio generale della società”. Grazie ad essa, dice, “sconfiggeremo definitivamente il modello perverso che ha dollarizzato i prezzi e usciremo dalla schiavitù di vedere ogni giorno il valore del biglietto verde salire”.
L’ottimismo del capo dello Stato venezuelane non è però condiviso dalle opposizioni che indicono uno sciopero generale contro il ‘paquetazo rojo’ (la ‘stangata rossa’) che “porta nuove sofferenze”; un’altra manifestazione è programmata per sabato 1 settembre, con ‘marce di chavisti’ a fare contrappunto. José Guerra, deputato dell’Assemblea nazionale (controllata dall’opposizione), denuncia che le misure di Maduro “hanno svalutato la moneta nazionale del 1.300% da un giorno all’altro”. E sostiene che l’aumento dell’Iva, invece di frenarla, “produrrà ulteriore iperinflazione”, mentre l’effetto dell’aumento del salario minimo sarà presto dissolto “dato che il ‘bolívar sovrano’ farà impennare i prezzi”.
Critiche alla manovra di Maduro vengono anche dagli Usa: il vicepresidente Mike Pence afferma che “peggiorerà le condizioni dei venezuelani” e chiede al regime di “autorizzare l’aiuto umanitario e di restituire la democrazia al Paese”. Ma, se il segretario alla difesa Usa Jim ‘cane pazzo’ Mattis compie una missione anti-Maduro nella Regione, il presidente riceve pure aiuti dall’estero: la Cina invia una nave ospedale e la Russia apre nel Paese un centro per l’assistenza degli elicotteri.