Donald Trump tra i due mesi, anzi 9 settimane e mezzo, di preavviso a Jeff Sessions: il presidente è generoso, per un datore di lavoro americano, che in genere di settimane ne dà due e basta, ma pare avere fretta di liberarsi della ‘zavorra’ che si trova intorno – o, almeno, di quella che lui considera tale -.
E così dopo avere dato il benservito al suo consigliere legale Don McGahn, che voleva andarsene, ma che si sente dire che Trump è “molto impaziente” di lavorare con il suo successore – cioè che non vede l’ora che lui se ne vada -, annuncia in tv il preavviso di licenziamento a Sessions.
Con il segretario alla Giustizia, anzi con tutto il Dipartimento della Giustizia, il rapporto è sempre stato d’amore e d’odio; e spesso di odio e basta. Il presidente s’è sovente comportato come se avesse l’impressione di nutrirsi le serpi in seno: Sessions è incapace di proteggerlo dal Russiagate, da cui s’è chiamato fuori dopo il siluramento del capo dell’Fbi James Comey; e Rod Rosenstein, suo vice, terrebbe addirittura bordone al procuratore speciale Robert Mueller – un altro che, se solo potesse, Trump si leverebbe di torno -.
In una intervista alla Bloomberg, il presidente ha detto che Sessions è sicuro di restare al suo posto almeno fino al voto di midterm del 6 novembre, ma non ha indicato che cosa ne sarà dopo. I media Usa interpretano il silenzio di Trump in modo univoco: la sorte di Sessions, da 20 mesi parafulmine di tutte le ire del presidente in seno al governo – come il generale John Kelly, capo dello staff, lo è da un anno di tutte quelle alla Casa Bianca -, è segnata.
Parlando a un comizio nell’Indiana, poche ore più tardi, Trump ha ribadito il concetto: i dirigenti del Dipartimento della Giustizia e dell’Fbi “devono iniziare a fare il loro lavoro e a farlo bene”, perché “la gente è arrabbiata”. A essere arrabbiato è soprattutto il presidente, deluso da alcuni – come Sessions -, abbandonato da altri – come McGahn e, prima, buona parte del suo staff legale – e tradito da altri – il suo avvocato Michael Cohen, il suo ‘editore di fiducia’ David Pecker e i suoi fidi della Trump Organization -.
Tutta gente che s’è scelto lui, come collaboratori o amici. Quando nominò Sessions alla Giustizia, molti a Washington si stupirono: il senatore dell’Alabama aveva fama di ometto né molto tosto né molto furbo, nonostante i vent’anni trascorsi a Capitol Hill.
Era stato uno dei primi esponenti dell’establishment repubblicano a credere in Trump e fu premiato. Ma Sessions si trovò presto ‘azzoppato’, come segretario alla Giustizia, dalla vicenda Comey e dall’avere mentito sui suoi contatti con esponenti russi durante la campagna 2016: disse di non averne avuti; poi si scoprì che aveva incontrato due volte l’ambasciatore russo Sergey Kislyak.
Di McGahn, che collabora con Mueller, Trump non parla male. Ma quando dice che non è stato lui a impedirgli di licenziare Mueller o Sessions, vuole solo proteggersi dall’accusa di ostruzione alla giustizia, che può piovergli addosso in ogni momento, anche solo sulla scorta dei suoi tweet. Si sa che il presidente va fuori misura, quando gli salta la mosca al naso: adesso, sta facendo la guerra alla Cnn – solita solfa – e a uno dei ‘mostri sacri’ del giornalismo planetario, Carl Bernstein, uno dei due cronisti del Watergate (l’altro è Bob Woodward).
A tratti, il gioco di Trump pare logoro. Un sondaggio lo dà in calo: il 60% degli intervistati ne boccia l’operato e solo il 36% lo approva. I dati di Abc/WP sono stati raccolti dopo la condanna dell’ex capo della campagna 2016, Paul Manafort, e le confessioni di Cohen. Netta la maggioranza che sostiene l’indagine sul Russiagate (63%), mentre quasi la metà degli intervistati, il 49%, pensa che il Congresso dovrebbe iniziare la procedura di impeachment di Trump (il 46% è contrario).