Per fortuna, i giornalisti della Fox non tutti sono come Roland B. Hedley jr, cronista della Casa Bianca creato dalla penna, e dalla matita, di Garry B. Trudeau per la Strip di Doonesbury che da quasi mezzo secolo racconta, con ironia critica, l’America: ‘foxiano’ e ‘trumpiano’ fino al midollo, Hedley manda in giro tweet demenziali (ma falsi) che fanno il verso a quelli – altrettanto demenziali (ma reali) – del presidente.
Nell’America di Trump, neanche la Fox è un paradiso per i giornalisti: alcuni non reggono il tono dell’unica ‘all news’ che il presidente vuole accesa alla Casa Bianca (le tv generaliste gli servono per lo sport e i reality). Così, Politico.com scrive che Adam Housley, reporter da fronti di guerre e di tsunami, l’inviato che raccontò la storia dei minatori in Cile, se n’è andato; e, prima di lui, se n’era pure andato il corrispondente da Gerusalemme Conor Powell – le cui dimissioni avrebbero una coloritura più politica di quelle di Housley, motivate su basi professionali -.
Prima ancora, se n’era già andata, per una carriera altrove, Megan Kelly, la moderatrice che osò fare domande scomode al candidato Trump nel primo dibattito fra aspiranti alla nomination repubblicani della campagna 2016 (il magnate le replicò con linguaggio sessista e aggressivo). La Kelly, 12 anni alla Fox, a inizio 2017 passò alla Nbc, che le offrì un posto meglio pagato e di maggiore visibilità – lì c’erano pure di mezzo vicende #Metoo ‘ante litteram’ -.
Il problema non è solo la linea della Fox ‘pro Trump’. Il problema, hanno spiegato a Politico.com fonti interne alla rete ‘all news’, è che i costi della copertura degli eventi e la polarizzazione della politica accentuata dal presidente hanno spostato l’attenzione dalle news in diretta ai dibattiti: non vale solo per la Fox, ma anche per Cnn e MsNbc: “Si fanno troppe chiacchiere e troppo poco giornalismo”, è la frustrazione dei reporter. Che, per di più, se sono Fox. si portano dietro l’etichetta di ‘trumpiani’ e se sono Cnn, o altro, quella, affibbiata loro dal presidente, di ‘fake news media’.
Per ironia della sorte, proprio un editore di ‘fake news media’ per antonomasia, David Pecker, può diventare la ‘pistola fumante’ delle inchieste che fanno annaspare Trump “con l’acqua alla gola” sulla copertina di Time. Co-proprietario dell’American Media inc. che pubblica tabloid ‘popolari’, come il National Enquirer, che non disdegna i racconti di persone rapite dagli Ufo, Pecker è amico del magnate, che ha sostenuto nella campagna presidenziale.
Ma ora l’editore, per garantirsi l’immunità, s’è impegnato a collaborare con gli inquirenti federali: comprò interviste esclusive alla pornostar e alla ex coniglietta di Playboy, che sostengono di avere avuto ‘storie’ con Trump, e non le pubblicò, blindandone il segreto. Al National Enquirer ci sarebbe un armadio pieno di notizie scomode per il magnate presidente.
Sotto il fuoco amico di Pecker e del suo ex avvocato Michael Cohen, Trump può davvero trovarsi nel guai. I magistrati stanno per mettere sotto accusa la Trump Organization e due suoi dipendenti, dopo che persino Allen Weisselberg, uomo di fiducia di Trump, ‘custode delle finanze’ di famiglia, ha barattato l’immunità con la collaborazione.
Il presidente se la prende con il segretario alla Giustizia Jeff Sessions, che non lo tutela. Sessions, per una volta, risponde a tono: “Fin quando sarò in carica, le azioni del Dipartimento della Giustizia non saranno indebitamente influenzate da considerazioni politiche”.
Gli avvocati di Trump provano a tamponare le falle e ad evitare che il presidente ne apra altre. Rudolph Giuliani, gli sconsiglia un faccia a faccia con il procuratore speciale Robert Mueller, perché teme che il presidente s’incrimini con le sue stesse parole, e cerca di convincerlo a non graziare, almeno per ora, Paul Manafort, l’ex capo della sua campagna, condannato per reati finanziari e fiscali. Il merito di Manafort, per Trump, è di non averlo ‘tradito’, come Cohen e adesso i suoi ‘amici’ Pecker e Weisselberg. La Casa Bianca continua a ripetere che “il presidente non ha fatto nulla di male” e che dal Russiagate “non emerge collusione” tra la campagna del magnate ed emissari del Cremlino. Ma si cerca una linea di difesa migliore.