Quando un protagonista della scena pubblica internazionale come Kofi Annan se ne va e tutti, ma proprio tutti, coloro che ne furono interlocutori ne parlano bene, anche coloro di cui lui fu antagonista, allora forse l’unica cosa che gli si potrà rimproverare è un eccesso di diplomazia o di essere stato troppo accomodante. Oppure, come fa Rory Stewart su The Guardian, la vanità del collezionista di premi e incarichi.
Annan, morto ieri in Svizzera all’età di 80 anni, dopo una breve malattia, è un caso del genere: ghanese formatosi negli Usa e in Svizzera, entrò all’Onu nel 1962 ed arrivò a esserne – primo e finora unico nero – segretario generale per due mandati, dal gennaio 1997 al dicembre 2006, dopo essere stato dal 1993 responsabile delle missioni di pace.
Era un uomo da scrivania più che da terreno: un tentativo di lavorare nel suo Paese fallì. Era multilateralista prima che africanista: non aveva sul suo popolo il carisma di un Nelson Mandela, ma aveva l’abilità e il fascino del grande diplomatico. Con lui, l’Africa sedette al tavolo di tutte le grandi decisioni internazionali.
Annan ottenne nel 2001 il Nobel per la Pace, insieme alle Nazioni Unite, per l’impegno umanitario, nonostante, proprio sul fronte delle azioni umanitarie e degli ‘interventi per proteggere’ – una linea che avrebbe poi teorizzato -, l’Onu e Annan avessero accusato negli Anni Novanta grossi smacchi: l’azione in Somalia, quella in Ruanda, la strage di Srebrenica sono pagine nere, anche se in situazioni e contesti molto diversi. Ma il premio gli fu consegnato quando, dopo l’attacco all’America dell’11 Settembre, il Mondo aveva ormai voltato pagina e sulla sua agenda c’erano nuove priorità.
Proprio dopo l’11 Settembre, Kofi Annan diede di sé le prove migliori: condiscendente con gli Usa sull’intervento in Afghanistan, deciso ‘per le vie brevi’ dopo l’attacco e mirato a colpire i santuari di Al Qaeda, che aveva rivendicato l’azione, e il regime dei talebani che li proteggeva; fermo contro l’invasione dell’Iraq, definita “un atto illegittimo” dal punto di vista del diritto internazionale.
Annan tenne fermo il punto nonostante le pressioni dell’allora presidente degli Stati Uniti George W. Bush, lasciando che il rapporto dell’Onu con gli Usa toccasse il punto più basso – prima della fase attuale, con un negazionista del multilateralismo alla Casa Bianca -. E proprio di questo gli rendono merito gli Elders, i saggi, il gruppo impegnato a promuovere la pace nel Mondo fondato da Mandela e presieduto da Annan dal 2013: “E’ stato un costante difensore dei diritti umani, dello sviluppo e dello stato di diritto … Si è impegnato per tutta la vita per la cause della pace e va ricordato per la sua ferma opposizione all’aggressione militare, in particolare all’invasione dell’Iraq a guida Usa nel 2003”.
Messaggi di cordoglio e d’apprezzamento vengono da Antonio Guterrez, attuale segretario generale dell’Onu, e da Ban ki-mon, da Obama –“ha incarnato lo spirito delle Nazioni Unite” – e da Putin – “Un uomo meraviglioso” -, da Macron e dalla Merkel, dall’Ue e persino da Bush che mal lo tollerava – “Un uomo gentile” -. Manca, per ora, all’appello Trump, ma non stupisce.
Ci sono pure messaggi italiani: da Romano Prodi, di cui fu interlocutore e che collaborò con lui, e dalle Istituzioni. Nonostante che Alessandra Baldini ricordi sull’ANSA un episodio ormai dimenticato dai più: come capo dei caschi blu, Annan si era fatto la fama di “nemico dell’Italia”, dopo le critiche rivolte al contingente tricolore in Somalia che portarono al richiamo del generale Bruno Loi – era il 1993 -. Il comandante italiano a Mogadiscio si sarebbe rifiutato di coordinarsi con l’Onu, preferendo rivolgersi a Roma