Nel giorno in cui si spegne una delle voci d’America più conosciute nel Mondo, quella della regina del soul, Aretha Franklin, un coro di oltre 350 media in tutta l’Unione si leva contro la “guerra sporca” di Donald Trump alla libertà di stampa e d’espressione. Ideata dal Boston Globe, quello – per intenderci – del caso Spotlight, l’inchiesta sulla pedofilia nella Chiesa a Boston, l’iniziativa raccoglie un larghissimo consenso, ma suscita pure distinguo e polemiche. Non vi aderiscono, ad esempio, il WallStreetJournal e la tv ‘all news’ Fox, l’unica che il presidente segue (vuole che i televisori della Casa Bianca e dell’AirForceOne siano tutti sintonizzati su quel canale).
I media coinvolti pubblicano ciascuno un editoriale contro gli attacchi alla stampa di Trump, che bolla le testate più autorevoli come “fake news media” e definisce i giornalisti “nemici del popolo”. Oggi, la risposta è l’hashtag #EnemyofNon, i giornalisti non sono nemici di nessuno. Il New York Times fa scorrere, sul proprio sito, gli articoli di fondo di ogni giornale: emerge la convinzione che gli attacchi del presidente compromettono la libertà di stampa e anche l’incolumità dei giornalisti.
Ma il magnate ha con sé una fetta dell’opinione pubblica. Secondo un sondaggio della Quinnipiac, il 51% degli elettori repubblicani considera i media più che un elemento di democrazia “un nemico del popolo” – l’epiteto di Trump e quello con cui i nazisti bollavano gli ebrei e Stalin gli oppositori da eliminare -. Un altro rilevamento attribuisce al 23% dei conservatori l’opinione che il presidente dovrebbe avere l’autorità di chiudere le testate che “si comportano male” come Washington Post, New York Times e Cnn.
L’aria illiberale della Casa Bianca permea tutta l’Unione. Trump commenta: “I media fake news sono il partito d’opposizione … E’ molto negativo per il nostro Paese … Ma stiamo vincendo …”. Insofferente delle critiche e incline a non raccontare la verità, il presidente inquina sempre più l’atmosfera dell’America: revoca il nullaosta di sicurezza all’ex direttore della Cia John O. Brennan, come atto di ritorsione per le critiche rivoltegli. Brennan, che ha spesso messo in dubbio capacità e competenze di Trump ad assolvere il ruolo, replica: “I miei principi valgono più dei tuoi nullaosta”.
La fabbrica di fake news che è divenuta la Casa Bianca nell’ ‘era Trump’ può contare sul consenso di quanti credono che problemi complessi abbiano soluzioni facili, che dire una cosa equivalga a farla e che crearsi nemici ovunque è un segno di forza e di potenza. E Steve Bannon, fra gli artefici della vittoria nel 2016, privato un anno fa del ruolo di guru, è pronto a scendere di nuovo in campo: il gruppo ‘Bannon’s Citizens for the American Republic’ sosterrà il presidente in vista delle elezioni di midterm, il 6 novembre.
Gli editoriali grondano preoccupazione. Il Boston Globe titola: “I giornalisti non sono il nemico”; e ricorda che per oltre 200 anni la libertà di stampa “ha protetto i giornalisti in patria e ha funzionato come modello per le nazioni libere all’estero … La grandezza della nazione dipende dal ruolo di una stampa libera che dica la verità ai potenti. “.
Il New York Times sceglie il titolo “La stampa libera ha bisogno di te”: gli attacchi di Trump sono “pericolosi per la linfa della democrazia … Gli errori vanno corretti, ma le verità che non piacciono non sono fake news”. Il New York Post insiste che “le verità scomode non sono fake news”. E ancora il Philadelphia Inquirer afferma che “se la stampa non è libera, non lo è neanche il Paese”.
All’iniziativa ha aderito anche il Topeka Capital-Journal, giornale della capitale del Kansas, uno dei pochi che sostenne Donald nel 2016. L’attacco ai media del presidente – scrive – “è infame e distruttivo e deve smettere ora”.