Fossero tutti come il professor Conte gli alleati degli Stati Uniti, la vita di Donald Trump sarebbe molto più semplice: nell’incontro di lunedì con il premier italiano, il magnate presidente – osserva Politico.com – ha goduto d’un privilegio raro, trovarsi di fronte un interlocutore più inesperto di lui di politica e di affari internazionali. E c’è andato a nozze. Altro che l’affare Andrew Craig Brunson.
Qui, invece, gli capita di avere a che fare con un ‘califfo’ come il presidente turco Recep Tayyip Erdogan, da quasi un ventennio un pezzo da novanta sulla scena mondiale; e la musica cambia. Sono giorni che gli Stati Uniti e la Turchia, Trump ed Erdogan, si scambiano stoccate: sciabolate, mica roba da fioretto; e pure sanzioni, sia pure un po’ edulcorate.
E’ un’escalation rischiosa. La Turchia è un Paese della Nato, ma Erdogan è capace di giochi doppi e tripli, come la vicenda siriana mostra: pronto ad assicurarsi aree d’influenza nel Paese, in funzione anti-curdi, spartendosele con Russia e Iran, ma continuando a restare ostile al regime di al-Assad e realizzando fin quasi all’ultimo scambi con l’Isis – petrolio in cambio di armi -; amico dell’America (e di Trump), ma deciso a rivendicare l’estradizione del suo ‘arci-nemico’ Fetullah Gulen, che vive negli Usa; pronto a monetizzare con l’Ue la presenza in territorio turco di due milioni di potenziali migranti siriani.
Il soggetto del contendere tra Usa e Turchia è il pastore Andrew C. Brunson, cittadino americano, 52 anni, di cui 23 passati in Turchia e gli ultimi due in un carcere turco (fino ai domiciliari concessigli il 25 luglio). Brunson venne arrestato nell’ottobre 2016, nel quadro delle purghe seguite al colpo di stato forse tentato e certamente fallito il 15 luglio 2016. In carcere da allora sono finite decine di migliaia di persone, militari, funzionari, insegnanti, accademici, dissidenti e giornalisti. L’accusa che li accomuna è d’essere parte d’una congiura ordita da Gulen, un ex sodale di Erdogan.
Brunson respinge le accuse, fra l’altro di terrorismo e di spionaggio: lui è un pastore evangelico (della Chiesa della resurrezione di Smirne, una congregazione di appena 25 fedeli), un missionario non proprio di successo (fa in media un adepto all’anno), e non ha le carte in regola per essere parte di un complotto islamico.
Negli ultimi giorni, proprio in chiave di difesa della libertà di religione, l’interesse per Brunson negli Usa s’è ravvivato: il vice-presidente Mike Pence, cattolico convertito fondamentalista, la voce degli evangelici nell’Amministrazione Trump, chiede che il missionario sia rilasciato; il presidente, via Twitter, rincara la dose, minacciando pesanti sanzioni.
La risposta di Erdogan, pure via Twitter, è stata picche: “Rivolgersi a noi con minacce non farà ottenere niente a nessuno. Abbiamo mostrato la massima solidarietà con gli Usa alla Nato. Siamo stati con loro in guerra in Corea. Non daremo credito a questi discorsi”. Erdogan auspica incontri e chiarimenti fra ministri degli Esteri. Quello turco, Mevlut Cavusoglu mette i puntini sulle i: “Nessuno dà ordini alla Turchia … Non tollereremo minacce da nesuno … Lo stato di diritto vale per tutti”; e nega che i domiciliari a Brunson siano stati ‘moneta di scambio’ per la liberazione d’una cittadina turca detenuta in Israele. Mike Pompeo e Cavusoglu effettivamente s’incontrano, ma ormai le sanzioni, per ora puramente dimostrative, sono scattate.
Washington contesta ad Ankara violazioni della libertà religiosa. Erdogan confuta l’accusa citando una presa di posizione dei leader delle principali comunità non musulmane turche, che escludono forme di “oppressione” nei loro confronti. Di Brunson, Trump scrive, con la consueta enfasi: “E’ un grande cristiano e un meraviglioso essere umano”, che sta “soffrendo enormemente … Quest’uomo di fede innocente dovrebbe essere rilasciato subito!”. Ma la Turchia ed Erdogan sono ossi duri.