Ho sempre pensato, un po’ per ripicca – lo ammetto -, che se Brexit ha da essere – e non ve n’è dubbio che sia così, ché le ipotesi di contro-referendum mi paiono alambiccate –, che Brexit sia davvero: chiara e netta, percepibile ed intellegibile a tutti i cittadini che restano nell’Unione e pure, e magari soprattutto, ai britannici che se ne vanno.
Se si troverà, l’intesa che si cerca non dovrà mascherare il divorzio: dovrà renderlo gestibile, favorire un rapporto civile e, se possibile, collaborativo fra gente che non vive più sotto lo stesso tetto. Se non si troverà, l’intesa, la frattura sia esposta, brutale, dolorosa: il Continente si scopra di nuovo isolato dalla Gran Bretagna; e i posti di frontiera tra Eire ed Ulster tornino a essere retaggi d’un passato di faide e gabelle, e anche d’odio e di sangue, ormai archiviato, se il sì nel referendum del 23 giugno 2016 non li avesse tirati fuori dai cassetti della storia dov’erano stati riposti.
Ma nella trattativa con l’Ue il governo di Sua Maestà, e di Theresa May, va avanti piano piano, più a zigzag che diritto, forse rendendosi tardivamente conto dei guai del ‘dopo Brexit’: perde i pezzi, con dimissioni di ministri chiave e ‘pro Brexit’; e capisce che la relazione speciale cogli Stati Uniti, cui guardava nel ‘dopo Ue’, ha il volto inaffidabile di Donald Trump, la cui visita nel Regno Unito, dal 12 al 15 luglio, è stata una ‘galleria degli orrori’: interferenze pesanti nella politica interna britannica; critiche alla May ed elogi al suo ‘arci-rivale’ Boris Johnson; affermazioni smentite e poi ribadite; gaffes con la Regina Elisabetta II, che nel suo lunghissimo regno credeva di avere già visto il peggio dell’America con George W. Bush; contestazioni di folla massicce da Londra alla Scozia, dove il magnate presidente fa pubblicità a un suo resort giocandovi a golf nel fine settimana.
Il babbo sul sofà – Nella prima metà di questo 2018, il negoziato non è avanzata di molto rispetto al dicembre scorso, quando una maratona negoziale notturna fra i presidenti della Commissione e del Consiglio europei Jean-Claude Juncker e Donald Tusk e la premier May l’aveva disincagliata, apparentemente, dalle posizioni di partenza.
A quel punto, s’erano fatti i conti con il passato: i soldi che Londra deve versare nelle casse dell’Ue, ad onorare gli impegni già sottoscritti; lo statuto dei cittadini dell’Ue in Gran Bretagna (e viceversa quello dei cittadini britannici nell’Unione europea); e, infine – ed era stata la questione più delicata, perché toccava equilibri interni al governo britannico, dove i nazionalisti protestanti dell’Ulster sono soci di mini-minoranza, ma indispensabili -, sembrava definita la situazione della frontiera tra Ulster e Repubblica d’Irlanda, l’unico confine terrestre tra l’insulare Gran Bretagna e l’Ue.
Restava da fare tutto il resto; ed era, ovviamente, la parte più difficile, notava il capo dei negoziatori Ue, l’ex ministro francese ed ex commissario europeo Michel Barnier, che constatava: “Non tutti hanno ancora capito che certi punti non saranno negoziabili”, specie per il mercato interno e le sue quattro libertà (circolazione di beni, capitali, servizi e persone). Il presidente Tusk concordava che “la sfida più difficile è ancora davanti a noi”; e, prendendo il privato a modello del pubblico, spiegava: “Rompere è difficile, ma rompere e costruire una nuova relazione lo è molto di più”.
La trattativa, a quel punto, aveva già consumato oltre la metà dei poco più di mille giorni disponibili tra il referendum del 23 giugno 2016 e la data stabilita per legge dal Parlamento britannico perché la Brexit si compia, il 29 marzo 2019. Ora se ne sono andati senza costrutto altri sette mesi e di giorni ne restano appena 240, meno di un quarto del tempo inizialmente disponibile. Poi, il babbo non potrà continuare a restare in casa, dormendo sul sofà, per mascherare la separazione ai bimbi: dovrà andare a stare altrove.
Sotto i ponti del Tamigi – Sotto i ponti del Tamigi, magari, se non si sarà preoccupato d’allestirsi una nuova sistemazione. Ché, invece, a Parigi, Roma o Berlino, tutto continuerà come prima, fatta eventualmente eccezione per i viaggi a Londra (torneranno i visti?) e gli affari con il Regno Unito (c’è chi prevede una “catastrofe economica” a Dover e a Calais, per antonomasia le ‘porte d’ingresso’ sull’Isola e nel Continente).
Ritardi e incertezze sono finora stati tutta farina del sacco britannico. Paradossalmente, c’è l’impressione che a Londra la vera discussione su significato e impatto della Brexit sia appena cominciata, con le dimissioni di due hard brexiteers, il negoziatore David Davis e il responsabile degli Esteri, ed ex sindaco di Londra, Johnson, dopo che la premier May aveva finalmente chiarito la sua posizione, suscitando insoddisfazioni nel suo partito e innescando l’uscita dal governo di chi vuole una ‘Brexit dura’.
Scrive su AffarInternazionali.it Lorenzo Colantoni: “Nonostante un governo britannico ancora più traballante e i brexiteer sul piede di guerra, è forse così che nasce la vera discussione su quale forma di Brexit negoziare con l’Ue, quale posizione diplomatica prendere nei confronti dell’Europa, come immaginare il futuro del Regno Unito con i suoi vicini e nel resto del mondo. Un dibattito che vede alla base la definizione della sempre più incerta identità politica del partito conservatore e forse della stessa Gran Bretagna”.
Dalle elezioni volute dalla May nel maggio 2017 per consolidare la sua maggioranza e il suo potere, sortendo, invece, l’effetto opposto, la precaria situazione britannica nel trattare la Brexit è stata acuita dalla sempre crescente instabilità interna al partito conservatore, spaccato tra la sua anima più tradizionale (sostanzialmente liberale e molto pragmatica) e la crescente vena anti-europeista, indebolita, ma non tramortita, dalle prove di interferenze e irregolarità nella campagna referendaria.
“Un atteggiamento – scrive ancora Colantoni – dai forti toni populisti e di cui politici come Johnson, noto estimatore di Trump, fanno un punto di forza, ma che, pur facendo presa su una parte dell’elettorato britannico significativa, poco è servito a rafforzare la posizione negoziale di Londra nei confronti di Bruxelles (anzi, ha piuttosto avuto l’effetto contrario)”.
Il risultato è stato una situazione di stallo dei negoziati sulla Brexit, con punti chiave che parevano risolti e che restano invece aperti: l’inclusione o meno del Regno Unito nel mercato unico e il futuro del confine tra Repubblica d’Irlanda e Irlanda del Nord. Il governo May ha continuato ad affrontare la trattativa con una visione ibrida, non apprezzata né dai brexiteers di ferro né da Bruxelles. Finché la May non s’è dichiarata per una soft Brexit, scontentando gli oltranzisti ma non sbloccando ancora il negoziato. Ripetere il mantra tautologico Brexit is Brexit non basta più: bisogna domandarsi e capire che cosa sia questa Brexit, a partire da quelli che, per primi, hanno imboccato questa strada.
Muro contro muro – Visti da Bruxelles, i negoziati sulla Brexit sono a un muro contro muro e, cioè, a un punto morto. Ormai, l’ipotesi d’un fallimento, cioè d’una Brexit senza intesa preliminare, che più che hard sarebbe selvaggia, non è per nulla esclusa. Il confronto tra Unione europea e Regno Unito è fermo su posizioni ancora troppo distanti e apparentemente “inconciliabili”. Le parti si gettano addosso, a vicenda, la parola, commentando le rispettive proposte.
L’ultima riunione del Consiglio dei Ministri dell’Ue, nell’ormai consueta formula a Ventisette, ha per l’ennesima volta certificato le difficoltà. “Avremo un accordo sull’uscita della Gran Bretagna dall’Ue solo se il testo legale sarà concordato su tutti gli aspetti – dice Gernot Blümel, austriaco, presidente di turno del Consiglio – … Dobbiamo intensificare la preparazione nel caso in cui non trovassimo un’intesa”.
Il negoziatore dell’Ue Barnier prende nota del libro bianco prodotto dal governo britannico, ma osserva che il documento è utile fino a un certo punto. “Ci sono degli elementi in contraddizione con le conclusioni del Consiglio europeo, come ad esempio l’indivisibilità delle quattro libertà”. Se la May propone ora solo la libera circolazione delle merci, “noi non negoziamo le quattro libertà”. Si parla di un accordo transitorio in attesa di quello definitivo vero e proprio, che, allo stato attuale, appare lontano.
Le dichiarazioni di Barnier sono riferite da Eunews: il negoziatore vede “tre problemi”. Il primo è quello del mercato unico europeo. Il Regno Unito è disposto ad adeguarsi agli standard comunitari, “ma solo per quelli alle frontiere”. Vuol dire, osserva Barnier, che alcuni prodotti potrebbero sfuggire a standard e norme: ad esempio, ii prodotti agricoli, su cui Londra potrebbe non rispettare le regole in materia di pesticidi o di organismi geneticamente modificati (Ogm). Di qui un rischio “per il mercato unico e per la sicurezza dei cittadini”.
Il secondo è la questione dei servizi. “Il Regno Unito vuole restare libero di avere regole differenti” da quelle europee. E, anche qui, si mina il principio delle quattro libertà. Infine, c’è un interrogativo sulla fattibilità delle proposte britanniche: se si continua a chiedere a Londra proposte “realizzabili”, è segno che le attuali non lo sono, che il governo May difetta di senso pratico. Il negoziatore Ue offre sponde, ma si prepara al peggio. “Restiamo aperti ad ogni soluzione, purché sia realizzabile e avanzata nei tempi giusti”: il tempo passa e c’è tempo solo fino a ottobre perché l’accordo possa essere votato dai Parlamenti nazionali. “Dobbiamo essere pronti ad ogni eventualità, inclusa quella d’una mancata intesa”.
L’unione è pronta a venire incontro alla Gran Bretagna, ma fino a un certo punto. “Sono loro che vanno via dall’Ue. Perché dovrebbe essere l’Ue a rischiare di indebolirsi?”. Una riflessione che aiuta a capire quanto poco scontate siano la situazione e la soluzione. Se si aggiunge che “devono essere ancora trovati accordi per le basi inglesi a Cipro e per Gibilterra”, la trattativa appare davvero in alto mare. La Manica non è mai stata così larga, da mezzo secolo in qua.