Se il giorno del vostre insediamento alla Casa Bianca dite, e fate dire al vostro portavoce, che “tutti i giornalisti sono gli esseri umani più disonesti sulla faccia della Terra”; e se apostrofate sistematicamente come “fake news media” organi di stampa più qualificati e rigorosi, quali NYT, WP, soprattutto la Cnn, è difficile pensare che possiate avere buoni rapporti con la stampa.
A onor del vero, Donald Trump neppure ci prova ad averli: l’ultimo episodio in ordine di tempo, relativamente minore, è il divieto d’accesso posto dalla Casa Bianca a una giornalista della Cnn, per un evento aperto alla stampa. L’associazione dei corrispondenti della Casa Bianca, influente, ma snobbata da Trump, che ne boicotta le cene annuali, depreca la decisione, una “ritorsione del tutto inappropriata”.
Il divieto d’accesso è scattato dopo che, mercoledì pomeriggio, la giornalista Kaitlan ‘Kate’ Collins aveva posto domande al presidente Trump nello Studio Ovale al momento degli scatti delle foto con il presidente della Commissione europea Jean Claude Juncker: la Collins voleva risposte sulla vicenda dell’ex avvocato personale del presidente, Michael Cohen, che ha registrato conversazioni compromettenti con il suo cliente – conversazioni sequestrate dall’Fbi e i cui contenuti stanno man mano divenendo di pubblico dominio -.
La portavoce della Casa Bianca, Sarah Huckabee Sanders, cerca di smorzare le polemiche: “Noi siamo a favore della libertà di stampa – dice -, ma chiediamo a tutti di rispettare la presidenza e gli ospiti del presidente”. La Sanders aggiunge che la Collins aveva urlato le sue domande e s’era rifiutata di uscire dallo Studio Ovale anche quando le era stato chiesto di farlo. “Di conseguenza il nostro staff l’ha informata che non era la benvenuta all’evento successivo. E lei ha detto che non le importava, tanto aveva pianificato di essere altrove”.
Quello della Collins è solito l’ultimo caso d’una lunga sequela d’incidenti di percorso coi media di Trump e della sua squadra, cominciata fin dalle prime battute della campagna elettorale: spesso, le protagoniste sono donne, come la reporter spintonata da Paul Manafort nell’estate 2015 – l’allora capo della campagna elettorale venne poi allontanato dall’incarico ed è oggi inquisito nel Russiagate -. Ma ci vanno di mezzo pure degli uomini, come Jim Acosta, reporter della Cnn, bersaglio preferito del team Trump.
C’è pure chi sui litigi con il presidente costruisce insperate carriere: prendiamo Megyn Kelly, anchor della Fox, moderatrice del primo dibattito fra candidati alla nomination repubblicana il 6 agosto 2015, attaccata con epiteti sessisti da Trump perché le sue domande non sarebbero state imparziali. La Kelly ha poi lasciato la Fox e ha oggi uno show tutto suo alla Abc.
E’ vero che molti presidenti si sono impegnati ad avere un buon rapporto con i giornalisti, specie con lo ‘White House press corp’ che li segue ovunque nei loro spostamenti, nell’Unione e all’estero: in tempi recenti, Ronald Reagan e Bush sr, Clinton e Obama ci sono generalmente riusciti; meno Bush jr, travolto, nel suo secondo mandato, dall’emergere delle bugie raccontate nel primo e dalla reazione imbelle all’uragano Katrina.
Con Richard Nixon, invece, i giornalisti rischiavano grosso: lo staff del presidente ordì persino un complotto per eliminare un giornalista della Abc scomodo, Jack Anderson – volevano toglierlo di mezzo con un’overdose di Lsd -. ‘Politicamente’ fatto fuori da due cronisti del WP, Carl Bernstein e Bob Woodward, Nixon fu però costretto a dimettersi prima che il piano contro Anderson fosse realizzato.
A fare della Casa Bianca un nido di vipere mediatico sono, però, a volte, gli stessi giornalisti: Jack Bell (Ap) e Marryman Smith (Upi), i due cronisti dell’assassinio di JFK furono protagonisti, quel giorno a Dallas, dell’ultimo atto di una loro faida durata 15 ann