A Donald Trump, signore dei dazi, deve ronzare in testa un motto tristemente famoso: “molti nemici molto onore”, creato da qualche rissoso e bizzoso condottiero – risalirebbe al germanico Georg von Frundsberg, 1473-1528 – e adottato, a casa nostra, dal fascismo – la rivista Gerarchia la citò nel 1924 come “proverbio tedesco” -, con fantasiose successive attribuzioni ‘nobili’ a Giulio Cesare o Ramsete II.
Prima di sbarcare in Europa, a Bruxelles, martedì 10 luglio, il magnate presidente ha rilasciato dichiarazioni a 360 gradi e s’è messo di traverso con tutti i suoi interlocutori prossimi venturi, europei dell’Unione e britannici della Brexit. Il Vertice dell’11 e 12 con gli alleati della Nato, cui vuole scucire spese per la difesa, lo vede più difficile dell’incontro, lunedì, a Helsinki, con il russo Vladimir Putin, cui è pronto ad ‘abbonare’ l’annessione della Crimea; e durante la visita a Londra, dal 13, non esclude di vedere Boris Johnson, il ministro degli Esteri dimissionario – chissà come sarà contenta Theresa May -.
Prima di venire a fare sconquassi in Europa, dove non è stato accolto in pompa magna – a Bruxelles c’era solo un diplomatico a dargli il benvenuto: il re e il premier e tutto il Paese stavano seguendo la semifinale dei Mondiali tra Belgio e Francia -, Trump aveva riattizzato, la settimana scorsa, la briga a colpi di dazi con la Cina e aveva poi dedicato qualche giorno alle grane interne. Pechino, però, non sta a guardare e non s’accontenta d’aspettare, sulla riva del fiume, di vedere passare, prima o poi, il cadavere del nemico (aforisma, questo, attribuito alla saggezza popolare cinese): stringe patti con la Russia e strizza l’occhio all’Ue, mirando, più che a dividere il campo occidentale, che tanto coeso non è, a creare un cordone di sicurezza economica, commerciale e anche politica intorno all’America di Trump.
Il premier cinese Li Keqiang, a Sofia, promette di ridurre i dazi sulle merci europee e di rafforzare la cooperazione, incontrando i leader dei Paesi dell’Europa centro-orientale con la formula ’16+1′ – l’uno è la Cina -. Li si rivolge a tutti i Paesi europei: la cooperazione – dice – vuole essere aperta e basata sui principi della trasparenza. Ma intanto riunisce gli anelli deboli dell’integrazione europea.
L’Amministrazione Trump, però, incalza: ha già pronta una lista di prodotti importati dalla Cina, per un valore di 200 miliardi di dollari, su cui imporre dazi del 10%: provvedimenti solo allo studio, ma che vanno ad aggiungersi a quelli già annunciati o previsti – l’eventuale entrata in vigore non avverrà prima di settembre -. Il governo cinese giudica la prospettiva “totalmente inaccettabile” e avverte che gli Stati Uniti stanno solo “accelerando e inasprendo” la disputa commerciale: prepara una risposta, ma invita la comunità internazionale a tutelare libertà degli scambi e multilateralismo.
Dal maglio allo spillo, l’America di Trump impone tariffe anti-sussidi pure sulle olive spagnole, inducendo le Autorità comunitarie ad annunciare contromisure. I nemici si moltiplicano, trasformando gli alleati in avversari, ma l’onore non si capisce dove stia.
Usa: una generazione di Corte Suprema conservatrice
Trump lascia Washington dopo avere scelto il giudice Brett Kavanaugh per la Corte Suprema. Dopo l’ok del Senato, Kavanaugh, 53 anni, prenderà il posto del dimissionario Anthony Kennedy e darà un orientamento conservatore alla massima magistratura degli Stati Uniti dove ormai cinque giudici su nove saranno d’ispirazione repubblicana: un’impronta destinata a segnare un’intera generazione, vista l’età dei giudici supremi – nominati a vita -. Era dall’epoca di Reagan che i conservatori aspettavano un momento come questo, con i giudici ‘liberal’ neutralizzati, dal loro punto di vista: Trump ‘mette in cassaforte’ il diritto di possedere le armi e l’ostilità della magistratura all’ampliamento dei poteri del governo, il prevalere delle ragioni della sicurezza, la tolleranza zero; e crea le condizioni per mettere in discussione diritti civili, accesso al voto, legalità dell’aborto.
La scelta di Kavenaugh, annunciata nella serata di lunedì, trova consensi pure nella destra moderata: il giudice pro-armi e anti-aborto, che dice che i magistrati devono “interpretare la legge, non farla”, piace al senatore John McCain e all’ex presidente George Bush, due ‘avversari dichiarati’ di Trump nel partito repubblicano. Pare una buona mossa di politica interna del magnate presidente, mentre s’intrecciano vicende diverse che inquietano l’America e la Casa Bianca e si avvicinano le elezioni di midterm a novembre: nel Russiagate, Michael Flynn, ex consigliere per la Sicurezza nazionale, compare per la prima volta in tribunale; un giudice di Los Angeles boccia misure del presidente contro l’immigrazione illegale – il contenzioso finirà alla Corte Suprema -; a New York la pornostar Stormy Daniels, le cui ‘esibizioni’ con Trump infastidirono Melania, fa strip integrali a due passi dalla Trump Tower.
La guerra commerciale con la Cina e non solo
Con l’imposizione di dazi reciproci per 34 miliardi di dollari e la minaccia Usa di ulteriori misure per 500 miliardi di dollari, la guerra del dazi tra Usa e Cina è cominciata ai primi di luglio, dopo mesi di schermaglie, trattative, tregue, minacce: è “la più grande guerra commerciale nella storia dell’economia”, secondo le autorità cinesi; oppure “la più grande battaglia commerciale americana dalla Grande Depressione”, secondo il Wall Street Journal, che fa una bandiera del liberismo e dell’anti-protezionismo. I media Usa prevedono un conflitto lungo e dall’esito incerto, gli europei esprimono preoccupazione, i cinesi non fanno testo; ma le borse mondiali, dall’Asia a Wall Street, passando per Francoforte, non ne hanno troppo risentito, forse perché avevano già ‘interiorizzato’ l’evento.
Claudio Salvalaggio, corrispondente dell’ANSA dagli Stati Uniti, ricostruisce così la vicenda ‘lato Washington’: “A sparare il primo colpo sono stati gli Stati Uniti: dalla mezzanotte del 6 luglio ora della Costa Est, sono entrati in vigore i dazi al 25% sull’import di 818 beni cinesi ad alto contenuto tecnologico per prevenire furti di tecnologia americana e iniziare a riequilibrare un deficit che tocca i 375 miliardi di dollari. Sono misure del valore di 34 miliardi di dollari, prima tranche di un’azione da 50 miliardi I settori colpiti sono quelli automobilistico, aerospaziale, dei macchinari industriali, della tecnologia informatica e della robotica”.
‘Lato Pechino’, la replica non s’è fatta attendere: “Bullismo commerciale”, ha sbottato il Ministero del Commercio cinese, rispondendo all’istante con contromisure di pari valore su beni americani: soia, carne, whisky e auto, tutti settori scelti per colpire l’elettorato conservatore (e quindi indebolire il sostegno al presidente) in vista del voto di midterm a novembre.
Poche ore prima che scattassero i dazi anti-cinesi, il magnate presidente aveva già minacciato ulteriori misure per 500 miliardi di dollari in caso di ritorsioni cinesi: un rilancio dieci volte la posta, una cifra astronomica che, sommata a quella delle inevitabili contromisure e agli altri fronti tariffari aperti con alleati e partner, come l’acciaio e l’alluminio con gli europei e i ‘vicini di casa’ canadesi e messicani, “rischia di avere l’effetto di uno tsunami sull’economia mondiale”. Scrive ancora Salvalaggio.
Trump, però, non pare intenzionato a fermarsi, anche perché, se il deficit commerciale americano è calato in maggio del 6,6% a 43,1 miliardi di dollari, il livello più basso negli ultimi 19 mesi, il gap degli scambi con la Cina è salito del 18,7% a 33,2 miliardi di dollari (+ 9,9% sullo stesso periodo dello scorso anno). E, per ora, non si vedono effetti concreti delle guerre commerciali né in Borsa né sull’occupazione, che continua a tirare, anche se i salari restano quasi fermi e le imprese sono contrarie ai dazi. I dati di giugno indicano la creazione di 213.000 posti di lavoro, più del previsto: “Dalle elezioni, sono stati creati 3,7 milioni di posti di lavoro”, si fa bello il presidente, ritwittando un post del Ministero del Lavoro.
Dalla Cina, oltre alle contromisure arrivano le contromosse: Pechino tesse la tela delle alleanze, sperando che Trump vi resti impaniato. Dall’Europa, arrivano segnali di inquietudine, che le frasi del presidente prima del Vertice della Nato amplificano – “gli alleati non sono corretti con noi” -, ma anche spiragli di trattativa: “Sviluppo preoccupante l’escalation delle tariffe tra Usa e Cina, che danneggia chiaramente l’economia mondiale. Le guerre commerciali sono cattive e non sono facili da vincere”, twitta la responsabile Ue al commercio internazionale Cecilia Malmstroem.
A fine mese il presidente della Commissione di Bruxelles Jean Claude Juncker volerà a Washington per discutere di dazi con Trump – magari, incrocia il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, che il 30 luglio ha appuntamento con Trump alla Casa Bianca -. Berlino tenta la via della distensione: “Noi abbiamo grande interesse a che non vi sia un rapporto commerciale conflittuale con gli Usa; e abbiamo grande interesse commerciale nei confronti della Cina”, dice il portavoce della Cancelleria Steffen Seibert. Ma che tra Trump e la Merkel la corrente non passi è cosa nota: Angela conclude affari con il presidente cinese Xi Jinping e, in cambio, ottiene la liberazione e l’arrivo in Germania di Liu Xia, vedova del dissidente cinese e premio Nobel Liu Xiaobo. Capita che affari e diritti s’intreccino.