Quando gli opposti reagiscono allo stesso modo, qualcosa di vero sotto ci dev’essere. Il Cremlino e i democratici all’opposizione nel Congresso di Washington avvertono all’unisono che “il diavolo”, nell’ accordo ieri sottoscritto dai presidenti Usa Donald Trump e nordcoreano Kim Jong-un, “è nei dettagli”. Che non ci sono.
Charles Schumer, leader dei democratici al Senato, contesta all’Amministrazione repubblicana d’avere rinunciato a “una leva rilevante” nei futuri negoziati sulla denuclearizzazione. E la Russia, in sintonia con la Cina, rilancia la formula dei negoziati a sei: le due Coree, Usa e Giappone, appunto Russia e Cina. Mosca e Pechino hanno voglia, e fretta, di rientrare nel gioco.
Sul New York Times, Nicholas Kristof scrive addirittura che Trump è stato “raggirato” da Kim: gli ha fatto concessioni senza avere niente in cambio. Trump – sostiene Kristof – “non ha ottenuto nulla che si avvicini” ai vantaggi previsti dall’accordo nucleare con l’Iran, da lui denunciato, che imponeva a Teheran di rinunciare al 98% del suo uranio arricchito.
La Nord Corea può sostenere che, con i suoi test nucleari e missilistici, Kim abbia costretto Trump ad accettarlo come partner nucleare, a fornirgli garanzie di sicurezza e a cancellare le esercitazioni con la Sud Corea – oggetto da anni di proteste -..
Kim, dal canto suo, ha ribadito l’impegno a una futura denuclearizzazione, espresso fin dal 1992. Ma non c’è un calendario di smantellamento del programma nucleare, non ci sono verifiche, non c’è la distruzione dei missili balistici intercontinentali e non c’è nemmeno l’esplicita promessa d’uno stop permanente ai test nucleari.
Ora, è senz’altro meglio negoziare con Kim piuttosto che scambiarsi quotidianamente minacce e vedersi passare saltuariamente sulla testa un missile nordcoreano, potenzialmente munito d’ogiva nucleare. Ma resta “francamente bizzarro” – il virgolettato è di Kristof – vedere il presidente Usa che un giorno attacca il premier canadese e il giorno dopo abbraccia “il leader del Paese più totalitario del mondo”.
Tutti sono consci che quello di Singapore è un accordo sul mettersi d’accordo, senza dettagli né scadenze. Le reazioni sono però positive da ogni dove: sviluppo positivo, passo importante, momento di pace storico. A Seul, il presidente Moon Jae-in spera “di chiudere l’ultimo conflitto della Guerra Fredda e di scrivere una nuova storia di pace e di cooperazione nella penisola”. Tokyo è pronta a “colloqui diretti” con Pyongyang.
Aneddotica sul Vertice – ricchissima – a parte, l’impressione è che Trump e Kim si siano lasciati esattamente là dove si sono incontrati: il loro Vertice non ha suggellato la fine di una trattativa, ma ne ha segnato l’inizio. Il documento finale impegna a lavorare verso la completa denuclearizzazione della penisola coreana, facendo sforzi congiunti per “costruire una pace duratura e stabile”. Trump offre, per accompagnare il processo, “garanzie sulla sicurezza”.
Fatto il Vertice, soddisfatto l’ego del presidente e del dittatore, il negoziato può iniziare: su ogive e missili, sanzioni e aiuti, non sul cerimoniale della recita di Singapore, com’è finora stato. Trump s’aspetta ora di trattare con l’Iran, ma quella è un’altra storia: Kim ha la bomba, Teheran non ancora.
C’è poi un punto di domanda sulle manovre militari congiunte con la Corea del Sud, sospese – dice Trump – perché “troppo costose”. I comandi militari non hanno ancora ricevuto ordini in merito, ma è certo questione di ore.