In sette settimane, 127 vittime: questo il dato ultimo della repressione in Nicaragua delle proteste contro il governo di Daniel Ortega, secondo la Commissione interamericana dei diritti umani (Cidh). Le proteste sono iniziate il 18 aprile e non si sono ancora concluse: nonostante gli appelli di Papa Francesco e le sollecitazioni della comunità internazionale, la repressione delle manifestazioni continua ad apparire “sproporzionata”.
Un fremito di proteste, repressione, violenza attraversa Paesi simbolo delle variegate esperienze della sinistra latino-americana, il Brasile, il Venezuela, il Nicaragua, mentre Cuba vive – finora senza scosse – una transizione di generazione più che di regime. Solo Bolivia ed Ecuador portano avanti senza autoritarismi i loro percorsi.
Presentando il rapporto della Commissione, Paulo Abrao, segretario della Cidh, giurista brasiliano, ha denunciato l’obiettivo delle autorità nicaraguensi di creare un clima di “intimidazione e terrore”. Per avere una dimensione della gravita della situazione, Abrao ha osservato che le manifestazioni nel Venezuela – tre volte l’Italia come dimensioni e 27 milioni di abitanti – hanno fatto 112 vittime nello stesso periodo; quelle in Nicaragua – un terzo dell’Italia e sei milioni di abitanti – di più.
A innescare le proteste è stata l’entrata in vigore d’una riforma previdenziale, che aumenta gli oneri a carico degli imprenditori. Con l’appoggio della Cosep, la Confindustria locale, e del giornale che fu dei Contra – gli anti-sandinisti -, La Prensa, studenti e cittadini scendono in piazza: fra le vittime della violenze, oltre a manifestanti, agenti di polizia e giornalisti. E’ stata pure incendiata la sede della Nuova Radio Ya, una emittente sandinista, una delle radio più ascoltate nel Paese. Il governo considera che sia in atto “un colpo di Stato della destra”.
Gli appelli del Papa al dialogo e lo scambio di lettere con Ortega
All’Angelus di domenica 3 giugno, Papa Francesco s’è dichiarato vicino ai “vescovi del Nicaragua” e ha espresso il proprio dolore “per le grandi violenze con morti e feriti compiute da gruppi armati per reprimere le proteste sociali”: “Prego per le vittime e per i loro familiari. La Chiesa è sempre per il dialogo, ma richiede l’impegno fattivo a rispettare la libertà e prima di tutto la vita. Prego perché cessi ogni violenza e si ripristinino al più presto le condizioni per il dialogo”.
Nei giorni precedenti, nel pieno delle violenze, Ortega aveva scritto a Francesco, dandogli il punto di vista del governo. Il papa aveva risposto al presidente, invitando al dialogo per risolvere la crisi, dicendo che non è mai troppo tardi per il perdono, offrendo preghiere perché siano trovate “le vie della giustizia, del dialogo e della pace”: il dialogo “umile e sincero” è “un buon mezzo” per trovare la pace e soluzioni “giuste”.
La (relativa) mobilitazione internazionale
Malgrado la sollecitudine del Papa, l’eco internazionale e la conseguente mobilitazione sono state molto inferiori per il Nicaragua che per il Venezuela: il regime post-chavista del presidente Maduro controlla risorse energetiche di grande rilievo e l’esodo dal Venezuela crea allarmi in Colombia e Brasile. Mentre l’eruzione del vulcano del Fuego in Guatemala fa temere un’ecatombe nell’America centrale e attira l’attenzione di media e Istituzioni internazionali.
Il Nicaragua non ha risorse strategiche e tiene la crisi incapsulata nei suoi confini. L’Organizzazione degli Stati Americani (Osa) ha concordato con la Cidh e con le autorità di Managua la creazione d’una commissione per indagare sulle violenze: gli esperti si metteranno all’opera a giorni e devono produrre un rapporto entro sei mesi.
Gli incidenti più gravi si sono registrati, a inizio giugno, a Masaya, una trentina di chilometri a Sud- Est di Managua: gli scontri tra manifestanti e polizia hanno fatto almeno 10 morti e 62 feriti. E c’è una decina di ‘desaparecidos’, secondo l’Associazione nicaraguense per i diritti umani (Anpdh).
Il presidente e il cardinale
Le vicende del Nicaragua richiamano e coinvolgono figure centrali delle vicende centro-americane degli Anni Ottanta. Il presidente Daniel José Ortega Saavedra, 73 anni, è un guerrigliero divenuto politico: leader della rivoluzione sandinista, che si batté contro la dittatura di Anastasio Somoza, è stato presidente per la prima volta dal 10 gennaio 1985 al 25 aprile 1990; ed è poi tornato ad esserlo nel 2007, rieletto – sempre a larga maggioranza – nel 2011 e nel 2016. Rivoluzionario e intellettuale è sposato con la poetessa Rosario Murillo, laureata a Cambridge in Letteratura, dalla quale ha avuto sette figli e che è attualmente sua vice-presidente. Vicino a Fidel Castro e a Hugo Chávez, Ortega è l’ultimo superstite, insieme al brasiliano Lula, ormai in carcere, d’una generazione di combattenti contro le dittature che repressero e insanguinarono l’America latina fino a tutti gli Anni Ottanta.
Altro personaggio centrale nella recente storia nicaraguense è il cardinale Miguel Obando y Bravo, arcivescovo emerito di Managua, spentosi nel sono a 92 anni proprio il 3 giugno, il giorno dall’appello all’Angelus di Papa Francesco. Mentre la gerarchia ecclesiastica nicaraguense sostiene la protesta, il vecchio porporato aveva mantenuto una posizione più equilibrata, contro le violazioni dei diritti umani, ma anche contro le violenze della destra.
Per il suo impegno per la fine della guerra civile che aveva sconvolto il Paese dagli Anni Sessanta, il cardinale era stato dichiarato dall’Assemblea nazionale “Padre della pace e della riconciliazione” – riconoscimento tributatogli nel 2016 -. Obando y Bravo s’è distinto per la difesa dei diritti umani sia sotto la dittatura di destra di Somoza sia durante il regime di sinistra sandinista. La sua opera pastorale e umanitaria ha ricevuto universali apprezzamenti. La sua scomparsa priva il Nicaragua d’un punto di riferimento e d’equilibrio.