Tra spioni ci s’intende. A volte meglio che fra leader. E così ieri Donald Trump se n’è allegramente partito per il Texas, annunciando che i preliminari del suo Vertice con il presidente nord-coreano Kim Jong-un “stanno andando molto bene”. In un grattacielo di New York, il segretario di Stato Usa Mike Pompeo e il braccio destro di Kim, Kim Yong-chol, vicepresidente del Comitato centrale del Partito dei Lavoratori, tenevano un incontro ristretto a pochi collaboratori, mentre altri emissari di Pyongyang consegnavano alla Casa Bianca una lettera riservata ‘da presidente a presidente’.
Una stretta di mano e poi via a confabulare: Pompeo e Kim Yong-chol sono stati entrambi al vertice dell’intelligence nei loro Paesi. Kim, che sarebbe nato nel 1945 – la data non è sicura e le foto non aiutano a dargli un’età – è una vecchia volpe, che ne ha viste (e fatte) di tutti i colori nei sette anni (dal febbraio 2009 al gennaio 2016) alla direzione dell’Ufficio d’intelligence centrale nord-coreano. Al confronto, Pompeo, 55 anni, è, se non un dilettante, un pivellino: lui la Cia l’ha guidata per soli 15 mesi, dall’inizio della presidenza Trump a quando, in aprile, è diventato segretario di Stato.
Kim, oggi dedito agli affari sud-coreani, cioè alle relazioni fra Pyongyang e Seul, a 18 anni era già un soldatino sul confine tra le due Coree ed ha fatto una lunga carriera nell’esercito, fino ai vertici dell’intelligence. Nel suo cursus honorum, poi sfociato negli incarichi politici, c’è la partecipazione, significativa laggiù, a numerosi comitati funerari, fra cui – massimo onore – quello di Kim Jong-il.
Nel febbraio scorso, la sua presenza nella delegazione nord-coreana alla chiusura dei Giochi d’Inverno in Corea del Sud fece alzare più d’un sopracciglio a Seul: gli viene infatti attribuita l’organizzazione di un attacco nord-coreano a una unità navale sud-coreana nel 2010, in cui persero la vita 46 marinai. Organi di stampa sud-coreani fecero trasparire irritazione e disagio, ma, alla fine, non accadde nulla.
Pompeo, di origini abruzzesi – la nonna paterna era figlia di due migrati da Caramanico Terme, Pescara -, viene dal Kansas: ottimi studi – diplomato in legge a Harvard -, modi un po’ grezzi, è stato nell’esercito e ha lavorato nel settore aerospaziale, prima di entrare in politica. Repubblicano, conservatore, vicino al Tea Party, deputato al Congresso dal 2010, appoggiò Trump nel 2016 e gli piacque: prima scelta alla Cia, seconda scelta al Dipartimento di Stato, dopo il flop di Rex Tillerson.
E’ stato fra i protagonisti, se non fra gli artefici, della distensione nord-coreana, con una missione, rimasta segreta fino a cose fatte, a Pyongyang, ancora prima d’essere confermato segretario di Stato. E negli ultimi dieci giorni ha molto contribuito a rilanciare la prospettiva di un Vertice a Singapore tra Trump e Kim il 12 giugno, dopo che proprio Trump l’aveva bruscamente cancellato con una lettera a Kim il 24 maggio: non se ne fa più niente, “Sono triste per la grande opportunità persa… Se cambi idea chiamami”.
Da quel momento, è stato un intreccio di contatti, anche tra il presidente sud-coreano Moon Jae-in, vero artefice della primavera coreana, e Kim, che si sono rivisti senza tutto il folklore del 27 aprile. Il valzer di contatti ha coinvolto anche la Cina, la Russia – ieri, il ministri degli Esteri Lavrov era da Kim -, la diplomazia Usa. L’incontro a New York tra Pompeo e il Kim ex spia e la lettera di Kim chiudono il cerchio, salvo colpi di scena ulteriori.
Trump ai giornalisti dice: “Vedremo cosa succede”, ma “speriamo di avere un vertice il 12”. Grazie (anche) ai due spioni, che, a cena, hanno brindato – birra o vino?, non si sa -, dopo bistecca, mais e formaggio, davanti a un panorama di Manhattan mozzafiato.