A meno di 48 ore da elezioni controverse, segnate dalla scarsa partecipazione e da accuse di brogli, martedì 22 maggio il Consiglio nazionale elettorale del Venezuela ha proclamato Nicolàs Maduro presidente per il periodo 2019-2025. Il successore di Hugo Chavez, scomparso nel 2013, è stato confermato con circa sei milioni di voti e oltre i due terzi dei suffragi espressi. “Il risultato del voto mostra un Paese che decide e che deve essere ascoltato e rispettato … Il popolo ha ribadito che vuole vivere in pace”, ha affermato la presidente del Consiglio nazionale elettorale Tibisay Lucena.
Ma l’insediamento di Maduro, scontato quanto la sua rielezione, avvenuta quasi senza avversari, coincide con un inasprimento delle tensioni del Venezuela con gli Stati Uniti, con molti Paesi latino-americani e con l’Unione europea, mentre la situazione economica ed umanitaria è drammatica e centinaia di persone per sopravvivere raggiungono ogni giorno Colombia o Brasile.
Nicola Bilotta, ricercatore dell’Istituto Affari Internazionali, inquadra così la situazione: “Nel 2013, Nicolàs Maduro vinse le prime elezioni presidenziali post-chaviste in Venezuela per 300.000 voti: un successo risicato, che lasciò trapelare la già scarsa popolarità politica del nuovo presidente. Ora, nonostante la crisi economica e umanitaria, il partito del presidente ha stravinto le amministrative del 2017 e Maduro è stato confermato a larghissima maggioranza. Eppure, il voto del 20 maggio, ancor prima di conoscerne i risultati, era già democraticamente delegittimate”.
Come primo atto del nuovo mandato, Maduro ha ordinato l’espulsione del più alto diplomatico Usa presente in Venezuela, l’incaricato d’affari Todd Robinson, accusato di cospirare contro il governo, e ha anche disposto l’espulsione del suo vice, Brian Naranjo. Washington non tiene un ambasciatore di rango in Venezuela dal 2010. La tensione con gli Stati Uniti s’è impennata in coincidenza con le elezioni, che la Casa Bianca considera “una farsa”.
Anche l’Ue e i suoi Stati “prendono in considerazione l’adozione di misure adeguate” nei confronti del Venezuela, secondo una nota dell’Alto Rappresentante per le politiche estera e di sicurezza Federica Mogherini. Per l’Unione, il voto del 20 maggio “si è svolto senza un consenso nazionale sul calendario elettorale e senza rispettare standard internazionali minimi d’un processo credibile”; e, inoltre, “senza rispettare il pluralismo politico, la democrazia, la trasparenza e lo stato di diritto”, con “numerose irregolarità segnalate, incluso l’acquisto di voti”. Tutto ciò “ha ostacolato elezioni giuste ed eque”.
L’isolamento internazionale – Ancora Bilotta: “Rispetto al 2013, a rendere più precario il processo democratico in Venezuela è proprio il mutamento dello scacchiere geopolitico nel continente sud-americano, che relega Maduro nell’isolamento. Al Vertice dell’Americhe, a Lima, in aprile, il Venezuela non è stato invitato, suscitando reazioni solo da parte di Bolivia, Cuba, Ecuador e Nicaragua. A livello internazionale, gli Usa e l’Ue avevano chiesto di posticipare il voto per garantire la partecipazione di tutte le forze politiche del Paese, criticando le violenze del governo”.
Mentre Trump prendeva misure che limitano la possibilità del Venezuela di vendere propri beni – leggi, petrolio – sui mercati internazionali, 13 Paesi latino-americani più il Canada – il cosiddetto Gruppo di Lima – hanno denunciato, in una dichiarazione comune, che “gli standard internazionali per un processo democratico, libero, giusto e trasparente” non sono stati garantiti il 20 maggio e hanno richiamato per consultazioni i loro ambasciatori a Caracas, convocando nelle varie capitali gli ambasciatori venezuelani per esprimere loro una protesta formale.
Fra i sostenitori rimasti al presidente e al regime, Diego Armando Maradona: l’ex ‘pibe de oro’, amico di Chavez come lo era di Castro, e sostenitore di Lula in Brasile, era al comizio di chiusura della campagna di Maduro. Politicamente irrilevante, ma sempre capace di polarizzare l’attenzione, il numero 10 per antonomasia è salito sul palco in short blu e maglietta grigia, portando un berretto da baseball con i colori del Venezuela, e ha ballato sventolando una bandiera venezuelana.
Il rito delle elezioni – La maggioranza schiacciante della competizione elettorale va letta tenendo conto del crollo dell’affluenza, delle accuse di brogli e della dubbia legalità dell’intero processo. Secondo i dati ufficiali diffusi dal Consiglio nazionale elettorale (Cne), Maduro ha ottenuto poco meno del 68% dei voti (circa sei milioni) contro il 21% (meno di due milioni) di Henri Falcon, ex governatore, ‘chavista’ dissidente. Il pastore evangelico Javier Bertucci non è arrivato al milione.
Sempre secondo il Cne – allineato sulle posizioni del governo – la partecipazione elettorale è stata del 46,1% degli aventi diritto, mentre il Fronte Amplio dell’opposizione l’ha dichiarata “al di sotto del 30%”. Il dato dell’affluenza è di per sé indicativo: la coalizione ‘anti-chavista’ del Tavolo dell’unità democratica (Mud) – esclusa dalla competizione dal Cne – invitava a boicottare il voto, considerandolo illegale. Anche a prendere per buono il dato ufficiale, l’affluenza il 20 è comunque precipitata rispetto alle precedenti presidenziali, quando sfiorò l’80%. Inoltre, rispetto al 2013, quando battè Henrique Capriles di appena 200 mila voti, Maduro ha perso 1,7 milioni di suffragi.
A conti fatti, anche Falcon e Bertucci, accusati di essere la foglia di fico del regime, perché contrari al boicottaggio, hanno respinto i risultati, denunciando centinaia di violazioni delle norme elettorali, e chiesto di indire nuove elezioni al più presto, con “regole chiare, democratiche e trasparenti”.
Questa volta, i leader più carismatici del fronte anti-Maduro erano stati esclusi preventivamente dalla corsa, lasciando la strada spianata all’astensionismo e alla conferma del presidente in carica. Capriles non poteva candidarsi, essendo stato accusato di irregolarità amministrative quando era governatore della regione di Miranda, così come Leopoldo Lopez, esponente di spicco del partito Primero Justicia, arrestato per i disordini del 2014.
I messaggi di felicitazioni e di sostegno a Maduro non sono stati numerosi: fra i primi a giungere, quelli del presidente boliviano Evo Morales e del neo-presidente cubano Miguel Diaz-Canel. Però, si sono fatti anche sentire due ‘pesi massimi’ delle relazioni internazionali: la Russia ha denunciato il tentativo degli Usa di influenzare l’esito delle presidenziali; e la Cina – alleato di Caracas e pure principale creditore del governo venezuelano – ha invitato a “rispettare la decisione del popolo”, richiamandosi al principio di non ingerenza nelle questioni interne di altri Paesi.
Il contesto economico, sociale, umanitario – L’economia venezuelana “continua la sua caduta verso il baratro”, afferma Bilotta. E spiega: “Il Pil s’è contratto del 16% nel 2016 e del 14% nel 2017 e nel 2018 si prevede un’ulteriore caduta del 15%. Secondo le proiezioni del Fondo Monetario Internazionale, l’inflazione in Venezuela, arrivata al 2.400% l’anno scorso, raggiungerà il 13.000% quest’anno: il bolivar venezuelano ha perso il 99,9% del valore in dollari negli ultimi due anni”.
In un articolo su AffarInternazionali,it, Bilotta e Mihaela Luchian, un’altra ricercatrice, scrivono: “Nel 2017 le proteste anti-governative furono sedate con violenza dalle forze militari … Oggi, però, le immagini che arrivano dal Venezuela non sono più quelle degli scontri tra manifestanti e polizia, ma delle lunghe fila di persone che attraversano il confine, a testimonianza della crisi umanitaria che i venezuelani stanno vivendo. L’Osservatorio venezuelano di Conflittualità sociale ha registrato 2.414 proteste nei primi 90 giorni del 2018, un incremento del 93% rispetto al medesimo periodo nell’anno precedente. Delle ultime proteste, solo il 15% hanno avuto motivazioni puramente politiche. La maggior parte è originata da rivendicazioni economiche legate alla crisi alimentare”.
La cornice macro-economica internazionale non favorevole – proseguono Bilotta e la Luchian – e “le pessime strategie di politica economica del governo Maduro hanno eroso la capacità dell’economia venezuelana di produrre beni di prima necessità. Il declino del prezzo del petrolio e la crescente riluttanza dei creditori, persino di Russia e Cina, a concedere nuovi prestiti rende sempre più difficile l’accesso del Venezuela alla valuta estera con cui acquistare merci basilari per la vita quotidiana”.
Il sistema sanitario è al tracollo: mancano sia medicinali che personale medico. Secondo dati recenti del governo venezuelano, nel 2016, la mortalità infantile è aumentata del 30% e i casi di malaria del 76%. E viene registrata la ricomparsa di malattie sconfitte dagli Anni ’90, come la difterite.
L’analisi di Bilotta e della Luchian diventa racconto: “Il crollo economico venezuelano è divenuto una crisi umanitaria a livello regionale con l’esodo, in misura crescente, di cittadini venezuelani verso gli Stati confinanti. A inizio 2018, il numero di venezuelani che lasciava il Paese era di circa 5000 persone al giorno. Lo Stato che più sopporta il peso dei flussi migratori dal Venezuela è la Colombia. Molti venezuelani attraversano temporaneamente il ponte di Simon Bolivar, che divide la Colombia e il Venezuela, per procurarsi beni di prima necessità, ma molti restano in Colombia, inducendo il governo colombiano a rafforzare la presenza militare al confine. In Brasile, il governo dello Stato di Roraima ha calcolato che, dal 2016, siano giunte dal Venezuela circa 30.000 persone: il presidente brasiliano Michel Temer ha dichiarato lo stato d’emergenza nella regione”.
Nonostante la retorica ufficiale del governo venezuelano neghi l’esistenza di una crisi umanitaria, è innegabile – a giudizio di Bilotta – che “il Paese sta attraversando una congiuntura economico-politica drammatica, in cui i venezuelani hanno difficoltà ad accedere a beni e servizi primari. Purtroppo, però, le elezioni presidenziali non hanno lasciato nessuno spiraglio al cambiamento: con l’irrigidimento delle libertà democratiche e l’esclusione degli avversari politici, Maduro ha certo consolidato il suo potere, ma ha però lasciato ai venezuelani l’onere della sua vittoria”.