Se avete già comprato la medaglia commemorativa del Vertice di Singapore tra Donald Trump e Kim Jong-un, tenetevela stretta, ché, di qui a qualche anno, rischia di valere una fortuna. Coniata prematuramente, la medaglia, infatti, celebra un evento che non si farà ed è destinata a diventare una rarità numismatica. Ma come?, si chiederà forse qualcuno: la ‘pace coreana’ non doveva essere la ‘storia di successo’ della presidenza Trump, da contrapporre al ’terribile accordo’ sul nucleare con l’Iran della presidenza Obama, ora stracciato?
Doveva essere così, ma qualcosa ha girato storto nell’ultima settimana. I toni si sono alzati: quando, ieri, i nord-coreani facevano sapere di essere desiderosi a sedersi al tavolo dei negoziati, ma pure pronti ad affrontare gli americani sul campo di battaglia, il dado del fallimento del Vertice era ormai tratto.
E, dunque, Trump ha scritto a Kim e ha annullato il Vertice del 12 giugno a Singapore: “Sono triste per la grande opportunità persa… Se cambi idea chiamami”. Forse c’è spazio per un ulteriore colpo di scena. Ma, al momento, la ‘pace coreana’ è compromessa. Interrogativi e perplessità pure a Seul, dove ci s’interroga sull’accelerazione americana, 48 ore dopo l’incontro a Washington tra Trump e il presidente sud-coreano Moon Jae-in, il gran tessitore dei contatti Trump – Kim (e probabilmente l’uomo più deluso in questo momento).
La Casa Bianca e l’Amministrazione statunitense addossano la responsabilità del Vertice abortito a Kim e alla Corea del Nord, ma anche a Xi Jinping e alla Cina. Ma il magnate presidente e la sua diplomazia muscolare affidata ai modi rozzi di Mike Pompeo non potevano attendersi che la strada di Singapore fosse lastricata di concessioni nord-coreane senza contropartite americane: la rinuncia al nucleare, lo smantellamento delle installazioni – ieri, era possibile assistervi, a Punggye-ri, pagando 30mila dollari -, il ridimensionamento dei programmi missilistici. E in cambio?
A guastare le cose, a due riprese, l’evocazione, da parte del consigliere per la sicurezza nazionale John Bolton e del vice-presidente Mike Pence, d’una “soluzione libica” per il regime nord-coreano: nulla di che tranquillizzare Kim, vista la fine fatta dal colonnello Gheddafi.
A Washington, c’è chi sospetta che il cambio d’atteggiamento di Kim, emerso la scorsa settimana, sia stato in qualche misura innescato dalla Cina, più o meno in coincidenza con il secondo Vertice tra Kim e Xi: Pechino avrebbe ripreso a foraggiare Pyongyang, allentando la presa delle sanzioni sul regime e incoraggiando Pyongyang ad alzare la barra delle richieste.
Ma la tattica di Trump, di aprire di continuo contenziosi con amici e nemici, alleati e controparti, non semplifica lo scacchiere della diplomazia internazionale: rompe con l’Iran sul nucleare e ripristina le sanzioni dettando condizioni capestro per la loro levata; non tiene conto degli europei né sull’Iran né sul trasferimento dell’ambasciata degli Usa in Israele a Gerusalemme; fa una tregua sui dazi con la Cina, ma la critica per la Corea; mentre tiene l’Ue sul filo di negoziati commerciali sul carbone e l’acciaio, prospetta di colpire le auto; riceve Moon alla Casa Bianca, ma ne manda all’aria il disegno di pace coreano.
C’è un filo conduttore, in tutto ciò? Forse, ma è difficile trovarlo. Seul sollecita un “dialogo diretto” tra Trump e Kim e, intanto, si preoccupa della sicurezza nazionale. Il clima del Vertice tra Moon e Kim, a Panmunjom, lungo il confine tra le due Coree, pare già storia – era solo il 27 aprile -.
Trump, che al mattino diceva che “il Vertice con Kim sarebbe una gran cosa per il mondo intero”, afferma che lo stop al Vertice di Singapore è una battuta d’arresto terribile, che la colpa è di Kim, che lui intende continuare a mantenere la massima pressione sul regime nordcoreano e che è pronto a parare azioni avventate da parte nord-coreana: il linguaggio è di nuovo tornato quello di prima della distensione olimpica, siano tornati a inizio 2018, quando Trump e Kim litigavano a distanza sulle dimensioni dei rispettivi bottoni nucleari.
Pompeo, che mette in bacheca il suo primo fallimento – il suo esordio da segretario di Stato, sia pure in pectore, era stata la missione preparatoria a Pyongyang – si rammarica e spiega che non c’erano le condizioni per un successo a Singapore, ma ammette che non ci sono prove che la Cina abbia allentato le sanzioni. Sul fronte interno, i repubblicani fanno cordata con il presidente, “decisione giusta al 100%”, mentre i democratici denunciano il fallimento.