Cambia l’avvocato e cambia la strategia di difesa: succede nei processi ai ladri di galline, figuriamoci in un’indagine che coinvolge il presidente degli Stati Uniti, dove il legale nuovo è Rudolph Giuliani, ‘sceriffo’ e sindaco Law & Order di New York, eroe dell’11 Settembre 2001, uomo dalla forte personalità e dalla robusta credibilità, nonostante incidenti di percorso personali e insuccessi politici.
Da un giorno all’altro, Giuliani cambia la linea di difesa di Trump non sul Russiagate, l’inchiesta sui contatti nel 2016 tra la campagna del magnate non ancora presidente e il Cremlino, ma – almeno per ora – sulla scappatella coniugale nel 2006 con la pornostar Stormy Daniels, pagata non per fare sesso – ché quello sarebbe stato ‘cadeau’ -, ma per tacere di averlo fatto.
Il risultato è, però, che il presidente fa la figura di quello che, fino al giorno prima, aveva mentito, raccontando un’altra verità. E, sul fronte Russiagate, Trump allontana l’ipotesi di un interrogatorio con il procuratore speciale Robert Mueller, citando su Twitter quanto il suo ex avvocato John Dowd disse in marzo agli inquirenti: “Questo non è un gioco. State facendo perdere tempo al presidente degli Stati Uniti”. Peccato che il magnate abbia licenziato Dowd, il mese scorso, proprio perché non gli faceva incontrare Mueller.
“Con la Corea del Nord, la Cina – cioè i dazi, ndr -, il Medio Oriente – cioè l’Iran e la Siria, ndr – e molto altro, non c’è tempo per pensare a questo, specialmente perché non ci fu alcuna ‘collusione’ russa”, aggiunge Trump. C’è pure chi pensa che la fuga di notizie sulle 50 domande che Mueller vorrebbe fare al presidente sia stata orchestrata da Giuliani, per avallare la tesi di una persecuzione del presidente da parte del procuratore, il cui posto traballa.
Un dato di fatto è che il rapporto Trump – Mueller s’è ormai deteriorato ed è al ‘calor bianco’, mentre il tempo del generale John Kelly capo di staff alla Casa Bianca pare finito – Trump lo spedirebbe ai Veterani – e le (s)fortune elettorali repubblicane allarmano sempre più il partito.
Raccontata ai media in prima persona, la versione di Giuliani è che Trump rimborsò di tasca propria (e non con soldi della campagna elettorale) Michael Cohen, il suo avvocato personale ora indagato dall’Fbi per avere versato alla Daniels prima delle presidenziali 130mila dollari. Il tycoon aveva sempre negato non solo la scappatella, ma anche di essere a conoscenza del pagamento.
“Nessuna violazione delle normi sulla campagna elettorale”, come ipotizzato invece nell’inchiesta su Cohen, dal cui studio sono stati sequestrati molti documenti. Giuliani spiega: “Il presidente lo rimborsò nell’arco di mesi”, con rate di 35 mila dollari prelevati dal conto di famiglia.
Forse, Giuliani si preoccupa di evitare che le bugie del presidente siano smascherate dall’Fbi, che potrebbe avere già ricostruito per conto suo il percorso del denaro. E la linea del legale è avallata dal presidente, ovviamente via Twitter: i soldi alla Daniels dovevano “fermare le accuse false e ricattatorie” fatte dalla donna, nonostante lei “avesse già firmato una lettera dettagliata nella quale ammetteva che non c’era stata alcuna relazione”.
Complessivamente, Cohen ricevette 460.000 o 470.000 dollari, una somma che include anche soldi per “spese incidentali” sostenute dal legale per conto del tycoon. Resta da vedere se il pagamento configuri una violazione della legge elettorale e se essa sia sanabile. In ogni caso il presidente non l’ha riportato nelle sue dichiarazioni finanziarie.
Giuliani ha precisato che il presidente e gli altri suoi legali erano a conoscenza della rivelazione che avrebbe fatto. Il che, vista la volubilità di Trump, non lo mette, però, al riparo dal subirne la collera, se il cambio di strategia dovesse rivelarsi un boomerang.
Giuliani ha anche offerto una nuova versione sui motivi del licenziamento da parte del presidente del capo dell’Fbi James Comey, silurato, tra le altre cose, perché si sarebbe rifiutato di dire pubblicamente che il magnate non era un obiettivo dell’inchiesta sul Russiagate. Su questo punto, una volta di più le versioni si succedono e si contraddicono: annunciando il siluramento di Comey, la Casa Bianca citò inizialmente la cattiva gestione da parte del direttore dell’Fbi dell’indagine sui server privati dell’ex segretario di Stato Hillary Clinton; poi Trump in una intervista alla Nbc disse che nel silurare il capo dell’Fbi aveva in mente “questa cosa russa”, un riferimento al Russiagate.