Che si riveli una ‘bromance’, com’è stato con Emmanuel Macron, o che finisca a sorrisi forzati, come accade sempre con Angela Merkel, incontrare il presidente Donald Trump è, per partner e alleati, un esercizio frustrante e inutile: passano due giorni e lui fa esattamente quel che gli frullava in mente prima, come se quei colloqui e le successive dichiarazioni non avessero alcun peso. L’ennesima conferma viene dalle vicende parallele dei dazi e dell’Iran, che apparentemente non sono collegate, ma che hanno la stessa morale: l’unica bussola di Trump è il suo interesse, camuffato da interesse dell’America – o, se vogliamo metterla giù meno dura, la sua percezione della ‘cosa giusta da fare’ -; il resto non conta.
La settimana scorsa, Macron e la Merkel sono andati a Washington a dirgli che la ‘guerra dei dazi’ è un guaio per gli Usa come per l’Ue e che l’accordo sul nucleare con l’Iran funziona e non va messo in discussione, semmai migliorato. La settimana non era ancora finita e Trump già rilanciava la ‘guerra dei dazi’ e inaspriva, via Israele, la polemica con l’Iran, con conseguenze potenzialmente catastrofiche: a dovere sempre contare sul buon senso di interlocutori bistrattati si rischia, prima o poi, la grana grossa.
Non tragga in inganno il rinvio d’un mese, dal primo maggio al primo giugno, dell’applicazione, nei confronti dell’Ue, oltre che di Canada e Messico, dei dazi sull’export negli Usa di acciaio (25%) e alluminio (10%). Un mese, per un negoziato commerciale serio e complesso, è un periodo molto breve. E, intanto, i dazi sono scattati verso gli altri Paesi esportatori, Cina compresa. Quel che Trump pensa davvero dell’Unione europea lo ha detto in un comizio in Michigan sabato 28 aprile: “E’ nata contro gli Usa ed è un partner commerciale scorretto”.
Il New York Times ipotizza che la dilazione concessa all’Ue e ad altri Paesi serva a lasciare all’Amministrazione Usa agio per preparare il Vertice con il leader nord-coreano Kim Jong-un e, soprattutto, per decidere se fare davvero ‘saltare’ l’accordo sul nucleare con l’Iran, cui gli europei, e anche Onu, Russia e Cina, tengono molto. Trump, che sì è dato una scadenza al 12 maggio, sembra, però, tenere più al rapporto con Israele, che, durante la visita del segretario di Stato Mike Pompeo, ha rispolverato vecchi dossier sul nucleare iraniano, e con l’Arabia saudita, impegnata a contrastare all’Iran la supremazia nella Regione.
E poi guerre commerciali e minacce nucleari sono eccellenti evasioni dai fronti caldi interni: migranti, con scontri e sconfitte nelle aule dei tribunali; Russiagate, con l’inasprimento delle tensioni con il procuratore speciale Robert Mueller; e turbolenze nell’Amministrazione, con gente che – soprattutto – se ne va, o cacciata o di propria iniziativa.
Il congelamento dei dazi ‘europei’ fino al primo giugno
La decisione di Trump di posticipare di un mese la guerra commerciale con l’Unione europea arriva a poche ore dalla scadenza del primo maggio inizialmente fissata per la deflagrazione del conflitto. L’estensione delle trattative riguarda non solo l’Ue ma pure il Canada e il Messico, con cui gli Usa sono impegnati a rivedere l’attuale accordo di libero scambio, il Nafta.
La Casa Bianca spiega: ”L’Amministrazione ha raggiunto un’intesa definitiva con la Corea del Sud per l’import di acciaio. E ha raggiunto accordi di principio con Argentina, Brasile e Australia, i cui dettagli saranno finalizzati a breve. L’Amministrazione estende le trattative con Canada, Messico e Ue per altri 30 giorni. In tutti questi negoziati, gli Stati Uniti mirano a concordare quote che frenino l’import e tutelino la sicurezza nazionale”.
Il deficit commerciale degli Usa nei confronti dell’Ue è salito in vent’anni dai 17 miliardi di dollari del 1997 ai 151,4 miliardi del 2017. Un rosso causato soprattutto dalle esportazioni manifatturiere della Germania: lo scorso anno, gli Stati Uniti hanno acquistato 117,7 miliardi di prodotti tedeschi, il 27% del totale dell’import dall’Ue. Le missioni americane di Macron e della Merkel e le trattative, protrattesi fino all’ultimo minuto, con colloqui telefonici fra i negoziatori transatlantici, non hanno però prodotto un’intesa, ma solo il rinvio.
Parigi, Berlino e pure Londra hanno fatto fronte comune, lanciando un ultimatum a Washington: “Se scattano i dazi, partono le contro-misure”, che colpirebbero ‘in primis’ gli elettori di Trump, quelli degli Stati manifatturieri e agricoli americani. Il ministro italiano dello Sviluppo economico, Carlo Calenda, manifesta un certo scetticismo sulle tattiche europee: lui non approva la linea Macron-Merkel-May, “non perché sia favorevole ai dazi, ma perché bisogna tenere i toni molto bassi e stare molto attenti a non costruire una situazione che rischia di sfuggirci di mano”.
Le reazioni di Bruxelles e di Pechino
A Bruxelles, la Commissione europea ha “preso nota” senza nessun entusiasmo della proroga, perché – recita una nota – “prolunga l’incertezza del mercato, che sta già condizionando le decisioni delle imprese”. “L’Ue – insiste l’Esecutivo – deve essere esentata completamente e permanentemente dai dazi, che non possono essere giustificati sulla base della sicurezza nazionale”.
L’Unione mantiene “la disponibilità a discutere le questioni di accesso al mercato” americano, ma chiarisce pure che, “come partner e amico di lunga data degli Usa, non negozierà sotto minaccia”: niente pistola sul tavolo, insomma. “Qualsiasi futuro programma di lavoro transatlantico deve essere equilibrato e reciprocamente vantaggioso” e la proroga può rappresentare “una concessione temporale significativa” solo se consentirà di arrivare all’obiettivo di un’esenzione totale e permanente.
Analoga la posizione espressa su Twitter dal presidente del Parlamento europeo Antonio Tajani: “L’esenzione solo fino al primo giugno non è sufficiente … L’incertezza è dannosa per l’industria … Ci aspettiamo che l’Ue sia esentata dai dazi una volta per tutte … Noi giochiamo secondo le regole: lavoriamo assieme per isolare quanti non lo fanno”.
Chi non lo fa potrebbe essere la Cina, che, però, è meno accomodante dell’Ue sui dazi, forse anche perché non ha avuto nessuna proroga. I funzionari americani che sono giunti a Pechino in settimana per presentare le loro richieste si sono sentiti rispondere picche: quali che siano, non se ne parla neppure.
E così Washington progetta l’escalation: impedire ai cittadini cinesi di svolgere attività di ricerca negli Stati Uniti, nel timore che specialisti e studenti formati nelle aziende o nelle Università americane possano a gioco lungo dare alla Cina una posizione dominante nel settore determinante delle tecnologie informatiche.
Come sono lontani i tempi di Macron a Washington
Eppure, tutt’altra atmosfera s’era respirata a Washington nelle 72 ore della visita di Stato – la prima in assoluto, dell’era Trump – del presidente Macron. Quella della cancelliera Merkel era durata solo tre ore ed era stata molto meno ‘glamour’ -.
Non che Macron fosse stato condiscendente, ma abile sì … di qui in avanti, l’articolo prosegue riprendendo stralci già pubblicati …