“Se la Siria userà ancora armi chimiche, gli Usa hanno il colpo in canna e sono pronti a sparare”: parole da gente del Sud, tosta e per nulla diplomatica, cresciuta nel culto del secondo emendamento della Costituzione statunitense, quello che consente a ognuno di possedere e portare un’arma. La frase, che ha fatto correre un brivido lungo la schiena a quanti seguivano, sabato, la riunione d’emergenza del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, e inarcare più d’un sopracciglio, è stata pronunciata da una bella e combattiva signora: la rappresentante degli Usa all’Onu, Nikki Haley, una politica di periferia – viene dalla South Carolina – prestata alla diplomazia internazionale.
“Quando il presidente Trump traccia una linea rossa, poi la fa rispettare”: dice la Haley. Sottinteso, non come quel mollaccione di Barack Obama, che tracciava linee rosse e lasciava che zio Vladi lo togliesse d’impaccio. E a chi accusa Trump e gli Usa di sapere solo fare “bum bum”, Nikki risponde: “Abbiamo dato alla diplomazia occasioni su occasioni”, ma i russi cattivoni hanno sempre messo il veto sulle soluzioni della crisi siriana ‘American way’. Più ‘trumpiana’ di così, la Haley, che ama vestire malva o aragosta, ma che s’è recentemente convertita a più sobri e consoni nero e blu, non potrebbe esserlo. O, meglio, esserlo diventata. Perché all’inizio lei non tifava per il magnate candidato. Nel 2012, il candidato repubblicano alla Casa Bianca Mitt Romney pensò a lei come a una possibile vice-presidente.
Nel 2016, Nikki, che era la governatrice del suo Stato – eletta nel 2010 e rieletta nel 2014 -, fece campagna prima per Marco Rubio, senatore della Florida, poi per il più rozzo e più conservatore Ted Cruz, senatore del Texas, e solo all’ultimo si rassegnò a votare per Trump, “ma non ne sono una fan”.
Tra la fine delle primarie e le presidenziali, però, qualcosa accadde: la Haley, divenuta amica d’Ivanka, la ‘prima figlia’, si convertì a Trump e ne conquistò la fiducia, anche se, come aveva fatto con Romney, si sfilò dalla corsa alla vice-presidenza.
Nimrata ‘Nikki’ Haley, nata Randhawa – è di origine indiana, “non quelli con le piume”-. 46 anni, prima donna di origini indiane a diventare governatrice di uno Stato dell’Unione, era già stata sotto i riflettori della politica nazionale: nel gennaio del 2016, le era stata affidata la risposta repubblicana al discorso sullo stato dell’Unione pronunciato da Obama – l’ultimo del suo doppio mandato -.
Stimata anche dai democratici, la sua scelta come rappresentante degli Usa all’Onu, una delle prime annunciate, fu approvata dal Senato con 96 sì e soli 4 no. Il 25 gennaio 2017, la Haley poteva già cominciare il nuovo lavoro: la discrezione e la sottigliezza non sono stati i suoi mantra nei 15 mesi trascorsi al Palazzo di Vetro, tra crisi con la Nord Corea, tensioni con l’Iran, contrasti con la Russia e, per due volte, missili sulla Siria.
La sua visibilità e le scelte lessicali spesso taglienti possono riflettere ambizioni politiche: diventare segretario di Stato e, magari, un giorno, presidente degli Stati Uniti. The Economist ne parla come d’un mix “di ferocia e di capacità di conciliazione”. E nello staff di Trump si pensa che il presidente la stia preparando a ruoli più importanti: i numerosi incontri privati a bordo dell’AirForceOne hanno persino sollevato qualche diceria. Ma sulle storie alla #metoo, Nikki, sposata con due figli, ha avuto parole come staffilate, anche per il presidente.