Messo fuori gioco l’Isis, che sta magari cercano di ricostituirsi in Iraq, dove ha le sue radici, in Siria è venuto meno il minimo comune denominatore, il “nemico comune”, che teneva insieme gli attori, molto eterogenei, d’una guerra che dura da sette anni e che ha già fatto oltre mezzo milione di morti – la metà dei quali civili -: il regime di al-Assad e i suoi alleati Russia e Iran, gli Stati Uniti e la loro flebile coalizione, la Turchia e persino i curdi.
Da tempo, fin da prima che Trump divenisse presidente, l’America (e i suoi alleati) si chiedevano che cosa sarebbero rimasti a fare in Siria, una volta ‘fatto fuori’ l’Isis, visto che, dall’estate 2013, quella della linea rossa del ricorso delle armi chimiche tracciata da Obama e lasciata varcare senza conseguenze, la matassa l’hanno lasciata nelle mani di Putin (e in subordine di Rohani ed Erdogan).
Caduta Mossul in Iraq, presa Raqqa in Siria, messo in rotta l’Isis, l’interrogativo è divenuto attuale: “Che cosa ci stiamo a fare in Siria?”. Trump, per una volta, pareva aver azzeccato la risposta giusta: “Non ci stiamo a fare nulla e, quindi, veniamone via”, portiamo a casa i ragazzi, aveva detto a inizio aprile, magari pensando di acquisire punti in vista delle elezioni di midterm del 6 novembre.
Poi, l’attacco chimico di Duma gli ha fatto cambiare idea, forse anche perché in America i missili giovano alla popolarità – meno in Europa, il che rende ancora meno comprensibile l’allineamento della May e di Macron -.
E, così, il conflitto in Siria s’infiamma per una notte con i bagliori di quella terza guerra mondiale “a pezzi” paventata da Papa Francesco, strascichi della disfatta dell’Isis, in Afghanistan, in Yemen, nel Sahel e nel Corno d’Africa. Se ne può trovare un’analisi più disincantata della mia, e certo più attenta alle linee maestre della ‘real politik’, nell’articolo di Stefano Silvestri su AffarInternazionali.
Se l’azione punitiva contro l’uso delle armi chimiche a Duma si fermerà alla gragnola di missili della notte tra venerdì e sabato, le conseguenze e l’impatto saranno limitati: Trump e i suoi sodali hanno avuto cura e tempo di evitare un faccia a faccia militare con Putin. Le conseguenze dell’attacco le subiranno i loro alleati in territorio siriano, i ribelli ad al-Assad rimasti sul campo, oltre alle vittime di qualche sporadico ed estemporaneo attacco terroristico in Europa ‘innescato’ dalla dimostrazione di forza – o di debolezza ai limiti dell’impotenza? – occidentale.
Più pericolose, per una deflagrazione regionale, se non mondiale, sono le ‘punture di spillo’ d’Israele all’Iran in territorio siriano: incursioni con vittime contro postazioni iraniane, che sicuramente faranno scattare ritorsioni – magari affidate a Hezbollah o ad Hamas -. Ce n’era stata una prima dell’attacco missilistico, ce n’è stata un’altra subito dopo: Israele sa di avere l’avallo di Washington ed agisce contro l’Iran quasi anche per procura di Riad.
Perché in Siria ciascuno combatte una sua guerra diversa: al-Assad e il suo regime vogliono perpetrare se stessi (e ci sono fin qui riusciti e ancora ci riusciranno); Russia e Iran vogliono mantenere al potere al-Assad e affermare la loro influenza/egemonia nella Regione; la Turchia è contro al-Assad, ma si soddisfa di avere mano libera contro i curdi; i curdi sono stati i protagonisti sul terreno della sconfitta dell’Isis e s’aspettavano forse una ricompensa sotto forma d’autonomia, se non di Stato, mentre invece l’Occidente li lascia in balia dei turchi; l’Arabia saudita e Israele vogliono limitare l’espansione (d’influenza) iraniana; l’opposizione al regime non si capisce se e quanto conti e se e quanto sia moderata.
Tutto chiaro. Tranne quello che stanno a fare in Siria gli Stati Uniti e i loro alleati: battere un pugno sul tavolo una volta all’anno non è una strategia; e neppure una tattica o una dimostrazione di forza. E’ un’ammissione d’irrilevanza, d’impotenza, di frustrazione.