Quasi 15 mesi di insulti, minacce e provocazioni tra Donald Trump e Kim Jong-un non avevano fortunatamente fatto nessuna vittima. Una settimana di speranze di pace tra Usa e Corea del Nord hanno già lasciato sul terreno il cadavere (diplomatico) di Rex Tillerson, licenziato su due piedi, anzi in un tweet. Il segretario di Stato, troppo ‘per bene’ e troppo ‘establishment’, non la pensava come il presidente Usa su Iran, Russia, dazi; e voleva dialogare con la Corea quando Trump faceva a botte verbali con ‘Rocket man’ cicciobomba, mentre ora metteva i bastoni fra le ruote al ‘Vertice dei pulsanti nucleari’ – un po’ troppo improvvisato, a suo giudizio -.
Sui libri di storia ci sarà –forse– scritto che, dopo essersi tanto insultati e presi a metaforiche pallate, Trump e Kim finalmente s’incontrarono e –magari!- fecero la pace. Quando e dove, ancora non si sa: presto, si dice – questione di settimane – e magari in Svizzera, Paese per antonomasia neutrale. Come fa spesso, il presidente americano alterna il caldo e il freddo: fa la guerra dei dazi agli alleati ed è tutto sorrisi e inchini col peggiore nemico. Mentre sul fronte interno promuove Mike Pompeo, uno con cui ha feeling, dalla Cia al Dipartimento di Stato: la diplomazia Usa sarà più muscolare e tutta ‘trumpiana’.
Verso il primo Vertice tra Usa e Corea del Nord
In realtà, ad avviare il disgelo è stato Kim. Trump ha subito la tregua olimpica tra le due Coree e ha poi fatto buon viso a cattivo gioco. E pure ora dice sì all’incontro a denti stretti e a muso duro. Sarà il primo Vertice fra un presidente degli Stati Uniti e un leader nord-coreano: Clinton a fine mandato e Obama ci pensarono, ma non se ne fece nulla -.
A portare il messaggio verbale di Kim a Trump è stato Chung Eui-Yong, il diplomatico sudcoreano reduce dalla missione della svolta a Pyongyang: quella che ha preparato l’incontro ad aprile tra Kim e il presidente del Sud Moon Jae-in. Trump non si mette di traverso, ma chiarisce che le sanzioni restano: “Rimarranno in vigore fono a che non ci sarà un accordo sulla denuclearizzazione”. E s’arroga il merito del cambio di posizione “radicale” e “sorprendente” del leader nordcoreano, che sarebbe frutto “della massima pressione economica e diplomatica esercitata dagli Stati Uniti e sostenuta dalla comunità internazionale”.
Ora – è il pensiero di Trump – bisogna evitare gli errori che sono stati fatti dal ‘92, cioè nei 27 anni di dialogo a singhiozzo con Pyongyang, quando le sanzioni e le pressioni furono spesso allentate, per avviare o sbloccare i colloqui. Kim, dal canto suo, esibisce un atteggiamento insolitamente comprensivo: s’impegna – fa sapere la Casa Bianca – ad astenersi da ulteriori test nucleari e missilistici e “capisce” che le esercitazioni militari congiunte di Usa e Sud continuino.
Tutto vero? Trump si fida fino a un certo punto (e Kim pure). Il New York Times segnala che l’atteggiamento strafottente con i partner internazionali del magnate presidente ha finora ottenuto scarsi risultati. Ma con Kim può esserci un qualche feeling: i due sono imprevedibili, impulsivi e – scrive Peter Baker – “condividono la passione di affibbiarsi nomignoli l’un l’altro”. Inoltre, “sono entrambi convinti di essere ciascuno tutto ciò che conta”.
La diplomazia dei Giochi a Giochi finiti
A due settimane dalla chiusura dei Giochi d’Inverno a Pyeongchang, lo spirito olimpico aleggia sulle relazioni fra le due Coree: Pyongyang e Seul hanno concordato lo svolgimento di un Vertice, entro fine aprile, fra i loro presidenti, Kim e Moon. I due Paesi hanno pure creato una ‘linea rossa’ di comunicazione diretta, che i leader hanno subito ‘testata’, con il loro primo colloquio diretto.
La ‘linea rossa’ deve consentire strette e rapide consultazioni fra i due Paesi e contribuire a ridurre le tensioni militari nella penisola coreana, ha riferito Chung, consigliere per la sicurezza di Moon, facendo un briefing a Seul sui risultati della missione da lui guidata al Nord: due giorni d’incontri e colloqui e, tre ore dopo il loro arrivo, una cena con Kim, che di solito preferisce fare attendere i visitatori – tovaglia e sedie rosa, tavola rotonda per 12 persone fra cui due donne -.
Accolta più positivamente a Pechino ed a Mosca che a Washington, la notizia ha lasciato freddi pure il giapponesi, la cui priorità resta l’abbandono dei programmi nucleari nord-coreani. L’Ue parla di “primi passi incoraggianti” e attende informazioni di prima mano dal ministro degli esteri sudcoreano Kang, che sarà a Bruxelles il 19 marzo. Il clima pare, comunque, molto disteso rispetto a poche settimane or sono, quando l’Orologio dell’Apocalisse era più vicino che mai allo scoccare della mezzanotte dell’Olocausto nucleare.
Il Vertice di aprile sarà il terzo fra le due Coree, ma il primo per entrambi gli attuali leader (Kim è presidente dal 2011, Moon da meno di un anno), dopo quelli frutto della ‘sunshine policy’ – 2000 e 2007 -. L’incontro non si svolgerà a Pyongyang, come i due precedenti, ma nell’area di sicurezza congiunta del villaggio di confine di Panmunjom, nella fascia demilitarizzata lungo il 45° parallelo.
Secondo le fonti sud-coreane, la Corea del Nord sarebbe incline ad accettare la denuclearizzazione della penisola, cioè a rinunciare all’atomica, che già possiede, e sarebbe pure disposta a sospendere le attività di sviluppo nucleare e missilistiche. Le fonti ufficiali nord-coreane si limitano a registrare la “soddisfazione” di Kim per l’accordo raggiunto con la delegazione sud-coreana, che gli ha recato una lettera di Moon e ha discusso come allentare le tensioni e rafforzare dialogo e cooperazione.
La parabola di Kim, da minaccia a potenziale Nobel
Che parabola!, Kim Jong-un: da minaccia dell’umanità a protagonista dell’alba di pace in Corea. Tutto nel giro d’un mese. Ovviamente, la parabola non è ancora compiuta e nessuno può oggi essere certo che mai lo sarà: l’imprevedibilità dei personaggi in causa induce alla prudenza senza precludere la speranza. Se qualcuno già ipotizza un Nobel della Pace al trio Kim – Trump – Moon, sono fantasticherie. Ma quel premio l’hanno vinto pure Kissinger o Arafat, che certo non erano pacifisti buonisti.
Kim, 34 anni da poco compiuti, resta il dittatore dell’unico dinastia comunista mai esistita, erede nel 2011 del padre Kim Jong-il, a sua volta erede del nonno Kim Il.sung, il fondatore della Corea del Nord. E resta il più giovane capo di Stato al Mondo e, forse, il maggiore accentratore di potere al Mondo – è presidente del Partito del Lavoro, comandante supremo dell’Armata del Popolo e ha una sequela d’altre prebende.
L’elenco sarebbe lungo almeno quanto quello delle abominevoli nefandezze attribuitegli, e più o meno confermate: l’eliminazione del fratello, dello zio, della ex fidanzata, oltre che di bizzeffe d’oppositori veri o presunti. Affamatore del suo popolo e minaccia dell’umanità intera, Kim, che studiò in Svizzera sotto falso nome, ha nel suo profilo qualche tocco leggero: è un amante di film – specie americani – ed è un fan della Nba.
In questa storia, Kim, descritto come un giovanotto rozzo, irascibile, violento, ha mostrato finezze diplomatiche inaspettate: quando pareva essersi chiuso nell’angolo, avendo irritato pure Mosca e Pechino, l’interlocutore privilegiato, ha colto al volo l’opportunità olimpica offertagli dal presidente sudcoreano Moon e, dopo i Giochi del Disgelo, ha ancora rilanciato, aprendo ai Vertici con Moon e con Trump e alla denuclearizzazione della penisola.