Sui libri di storia ci sarà –forse– scritto che, dopo essersi tanto insultati e presi a metaforiche pallate, Trump e Kim finalmente s’incontrarono e –magari!- fecero la pace. Quando e dove, ancora non si sa: presto, si dice – questione di settimane – e magari in Svizzera, Paese per antonomasia neutrale. Come fa spesso, il presidente americano alterna il caldo e il freddo: fa la guerra dei dazi agli alleati ed è tutto sorrisi e inchini con il peggiore nemico.
In realtà, ad avviare il disgelo è stato Kim. Trump ha subito la tregua olimpica tra le due Coree e ha poi fatto buon viso a cattivo gioco. E pure ora dice sì all’incontro a denti stretti e a muso duro. Sarà il primo Vertice fra un presidente degli Stati Uniti e un leader nord-coreano: Clinton a fine mandato e Obama ci pensarono, ma non se ne fece nulla -.
A portare il messaggio verbale di Kim a Trump è stato Chung Eui-Yong, il diplomatico sudcoreano reduce dalla missione della svolta a Pyongyang: quella che ha preparato l’incontro ad aprile tra Kim e il presidente del Sud Moon. Trump non si mette di traverso, ma chiarisce che le sanzioni restano: “Rimarranno in vigore fono a che non ci sarà un accordo sulla denuclearizzazione”.
Il segretario di Stato Usa Tillerson, che, quando parlò di dialogo con la il Nord fu immediatamente bacchettato dal suo boss, spiega il mutato atteggiamento con un cambio “radicale” e “sorprendente” di posizione del leader nordcoreano, che la Casa Bianca considera frutto “della massima pressione economica e diplomatica esercitata dagli Stati Uniti e sostenuta dalla comunità internazionale”.
Ora – è il pensiero di Trump – bisogna evitare gli errori che sono stati fatti dal ‘92, cioè nei 27 anni di dialogo a singhiozzo con Pyongyang, quando le sanzioni e le pressioni furono spesso allentate, per avviare o sbloccare i colloqui. Kim, dal canto suo, esibisce un atteggiamento insolitamente comprensivo: s’impegna – fa sapere la Casa Bianca – ad astenersi da ulteriori test nucleari e missilistici e “capisce” che le esercitazioni militari congiunte di Usa e Sud continuino.
Tutto vero? Trump si fida fino a un certo punto (e Kim pure). Il New York Times segnala che l’atteggiamento strafottente con i partner internazionali del magnate presidente ha finora ottenuto scarsi risultati. Ma con Kim può esserci un qualche feeling: i due sono imprevedibili, impulsivi e – scrive Peter Baker – “condividono la passione di affibbiarsi nomignoli l’un l’altro”. Inoltre, “sono entrambi convinti di essere ciascuno tutto ciò che conta”.
Non è molto. Ma la diplomazia mondiale, da Pechino a Mosca, da Tokyo a Bruxelles, s’accontenta e con prudenza si rallegra ed esprime auspici. Giusto come fanno le borse in Asia: che vanno su, nonostante la guerra dei dazi. Trump gongola: a questo ritmo, tra armi, dazi e Corea, tiene lontani i media dalle notizie per lui scomode.
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Che parabola!, Kim Jong-un: da Rocket-man, cicciobomba dell’Olocausto nucleare, a protagonista dell’alba di pace nella penisola coreana. Tutto nel giro d’un mese, dopo un anno d’insulti reciproci con il presidente Usa Donald Trump, di test nucleari, di lanci missilistici – provocazioni e azzardi, sempre con il rischio che qualcosa andasse storto -.
Ovviamente, la parabola non è ancora compiuta e nessuno può oggi essere certo che mai lo sarà: l’imprevedibilità dei personaggi in causa induce alla prudenza senza precludere la speranza. Se qualcuno già ipotizza un Nobel della Pace al trio Kim – Trump – Moon, sono fantasticherie. Ma quel premio l’hanno vinto pure Kissinger o Arafat, che certo non erano pacifisti buonisti.
Kim, 34 anni da poco compiuti, resta il dittatore dell’unico dinastia comunista mai esistita, erede nel 2011 del padre Kim Jong-il, a sua volta erede del nonno Kim Il.sung, il fondatore della Corea del Nord. E resta il più giovane capo di Stato al Mondo e, forse, il maggiore accentratore di potere al Mondo – è presidente del Partito del Lavoro, comandante supremo dell’Armata del Popolo e ha una sequela d’altre prebende.
L’elenco sarebbe lungo almeno quanto quello delle abominevoli nefandezze attribuitegli, e più o meno confermate: l’eliminazione del fratello, dello zio, della ex fidanzata, oltre che di bizzeffe d’oppositori veri o presunti. Affamatore del suo popolo e minaccia dell’umanità intera, Kim, che studiò in Svizzera sotto falso nome, ha nel suo profilo qualche tocco leggero: è un amante di film – specie americani – ed è un fan della Nba.
Dennis Rodman, uno della Hall of Fame del basket, e uno dei pochi cittadini americani ad averlo incontrato di persona, gli manda i saluti e un messaggio d’incoraggiamento tramite il presidente Trump: “Ben fatto, Mr President – dice all’Ap, parlando del Vertice che verrà – … Porga i miei saluti al maresciallo Kim e alla sua famiglia”.
Rodman non vede l’ora di tornare in Corea del Nord usando la ‘diplomazia del basket’ – lo sport è proprio fondamentale, in questa storia -. Ha già incontrato Kim nel 2013 e nel 2014 e nel 2017 compì una visita lampo a Pyongyang, per cercare di ottenere la liberazione di quattro cittadini americani detenuti, uno dei quali, Otto Frederick Warmbier, morì a giugno, pochi giorni dopo essere tornato in patria in condizioni disperate.
In questa storia, Kim, descritto come un giovanotto rozzo, irascibile, violento, ha mostrato finezze diplomatiche inaspettate: quando pareva essersi chiuso nell’angolo, avendo irritato pure Mosca e Pechino, l’interlocutore privilegiato, ha colto al volo l’opportunità olimpica offertagli dal presidente sudcoreano Moon e, dopo i Giochi del Disgelo, ha ancora rilanciato, aprendo ai Vertici con Moon e con Trump e alla denuclearizzazione della penisola.