Donald Trump è sicuro che le guerre commerciali siano “facili da vincere” e ne scatena una contro gli alleati europei, oltre che contro gli arci-rivali cinesi, nonostante reazioni a catena negative (e preventive) dentro la propria Amministrazione e nel partito repubblicano. Usando il potere d’adottare misure per tutelare la sicurezza nazionale, il presidente mette dazi sull’import di acciaio (25%) e di alluminio (10%) – la misura è flessibile e non entra in vigore subito -. Così, Trump divide gli alleati tra buoni, quelli esentati o esentabili dalle misure, e cattivi, quelli colpiti, mischiando i livelli commerciale, di sicurezza, politico: ad esempio, la Germania è nella lista dei cattivi perché non fa abbastanza, cioè non spende abbastanza, per la difesa della Nato.
E’ un altro modo di declinare il motto trumpiano ‘America first’, anche se non è il modo migliore per declinare l’altro motto trumpiano, ‘Make America great again’. Perché le guerre commerciali sono magari facili da fare, ma in realtà non le vince quasi mai nessuno e ci perdono sempre tutti. Non c’è niente di nuovo né di audace in una guerra dell’acciaio tra Usa e Ue: conflitti del genere, se ne combattevano già quando l’Ue era ancora Cee. Ma le guerre dei dazi non hanno impedito all’acciaio americano ed europeo di perdere terreno di fronte a quello cinese, indiano, brasiliano.
Trump continua ad ignorare le organizzazioni internazionali – non vorrebbe trattare con l’Ue, ma con i singoli Stati – e gli impegni sottoscritti – ‘esenta’ dalle misure Canada e Messico, facendo come se il mercato comune nord-americano, il Nafta, non esistesse -. Ma la reazione dei globalisti, che un tempo di sarebbero detti liberisti, non si fa attendere. 11 Paesi riesumano il defunto Tpp, mercato comune del Pacifico, in funzione anti-Usa.
Le scelte di Trump paiono più contraddittorie che mai. I dazi piacciono al sotto-proletariato bianco della Pennsylvania e dell’Ohio, che vi vede una difesa di posti di lavoro perduti per sempre (e che l’industria non tiene a recuperare). Ma arrivano mentre il presidente delude gli stessi elettori spingendo per controlli sulle vendite delle armi – proprio ieri, la Florida ha introdotto limitazioni -.
I dazi spaccano ulteriormente la Casa Bianca e la maggioranza repubblicana, tradizionalmente liberista. Senza aspettarne l’ufficializzazione, se n’è andato il consigliere economico Gary Cohn, convinto globalista, che Trump ipotizza – non si sa su che basi – possa tornare. Il New York Times scrive che l’esodo di consiglieri ed esperti lascia il presidente sempre più incline a seguire l’istinto. Il che è un rischio per lo stesso Trump, che, ad esempio, non dà ascolto ai suoi avvocati e vuole sapere dalla persone sentite nelle indagini sul Russiagate che cosa hanno raccontato agli inquirenti.
I nomi dei potenziali sostituti di Cohn fanno rabbrividire: Peter Navarro, un ‘falco’ protezionista, consigliere per le politiche commerciali, si chiama fuori, forse solo per non essere bruciato. Ma si parla pure di Larry Kudlow, un ex consigliere di Reagan, attualmente consulente esterno – critico però sui dazi – e del direttore del Bilancio Mick Mulvaney, un ex congressman repubblicano, mai uscito allo scoperto sui dazi.
Nella maggioranza repubblicana di Camera e Senato, c’è fermento. Oltre cento deputati chiedevano a Trump di lasciare perdere, nel timore delle inevitabili ritorsioni europee e cinesi che potrebbero colpire i loro collegi; w c’è chi pensa a una legge per cancellare la misura. L’Unione ha già pronta una batteria di misure, che vanno dai prodotti agricoli alle Harley Davidson; e Mario Draghi critica la “mosse unilaterali”. La Cina avverte che “una guerra commerciale è una cattiva medicina”: qualcosa di più d’una scaramuccia verbale. Ma il presidente s’esalta sfidando d’un colpo solo mercati, ministri – Dipartimento di Stato e Pentagono sono preoccupati –, istituzioni finanziarie e comunità internazionale.