Su twitter, e nelle prese di posizione ufficiali della Casa Bianca, Donald Trump si frega le mani dalla soddisfazione: gli sviluppi del Russiagate dimostrano che lui e la sua squadra non c’entrano con le interferenze del Cremlino nella campagna presidenziale di Usa 2016: le mene russe erano, infatti, iniziate nel 2014, un anno prima che il magnate scendesse in campo.
Il presidente, uso ai cortocircuiti logici, salta subito alle conclusioni e scrive: “I risultati del voto non sono stati influenzati. La mia campagna non ha fatto niente di sbagliato. Nessuna collusione!”.
In realtà, l’incriminazione di 13 cittadini russi e di tre entità russe, fra cui una ‘troll factory’, decisa dal procuratore speciale Robert Mueller è una prova “incontrovertibile” dell’interferenza di Mosca nelle elezioni presidenziali, ammette il consigliere per la sicurezza nazionale della Casa Bianca, generale H. R. McMaster.
Il che permette al Washington Post di affermare che gli sviluppi dell’inchiesta impongono a Trump di agire nei confronti della Russia, dopo avere a lungo sostenuto che le presunte interferenze erano solo ‘fake news’ ed avere affermato, a due riprese, dopo altrettanti incontri con Vladimir Putin, d’essere soddisfatto dei dinieghi del presidente sovietico. Il New York Times incalza: l’America è “senza leader”, nella “guerra virtuale” che la Russia le sta facendo.
Mosca continua a negare il Russiagate. Prima in un’intervista a Euronews, poi all’annuale Forum della sicurezza di Monaco, il ministro degli Esteri Sergej Lavrov dice: “Fino a quando non vediamo i fatti, sono tutte solo chiacchiere. Non abbiamo mai influenzato la campagna presidenziale Usa”. Lavrov, però, non alza i toni contro Washington: è attendista, spera che Trump inizia a mantenere le promesse, “sviluppare con la Russia normali, reciprocamente rispettose e mutualmente vantaggiose relazioni”.
Fonti vicine al procuratore speciale fanno sapere che l’inchiesta è lungi dall’essere conclusa; anzi, “è solo all’inizio”: Mueller continuerà ad indagare per accertare se il presidente Trump sia stato “colluso” o abbia “ostruito la giustizia”. Il lavoro degli investigatori andrà avanti “ancora per mesi”.
Giuridicamente, più che sulla collusione con i russi si punta sull’ostruzione alla giustizia, quando Trump licenziò il capo dell’Fbi James Comey che si rifiutava di ‘andarci leggero’ sul Russiagate. Politicamente, il nesso con il voto di midterm del 6 novembre è chiaro: se i democratici dovessero conquistare il controllo di Camera e Senato, il percorso dell’impeachment, attualmente un sentiero stretto e impervio, diventerebbe una strada maestra larga e dritta.
Mentre la giustizia fa il suo corso, l’industria di Internet corre ai ripari: Facebook sta raddoppiando il personale addetto alla sicurezza del social network, fino a 20mila unità; e sta lavorando con l’Fbi per impedire interferenze durante la campagna da parte di russi o altri. Trump, in visita in Florida, sui luoghi della strage nel liceo di Parkland, dice: “Non possiamo permettere a quelli che seminano confusione, discordia e rancore di vincere … E’ tempo di fermare gli attacchi partigiani, le accuse false e violente, le teorie inverosimili, che hanno il solo scopo di favorire i propositi di cattivi attori come la Russia e di non fare nulla per proteggere i principi delle nostre istituzioni”.
Fra i personaggi incriminati da Mueller, c’è Ievgheni Prigozhin, noto come lo ‘chef di Putin’. Dopo nove anni in prigione per frode e rapina negli Anni Ottanta, Prigozhin è divenuto un protagonista del catering e della ristorazione: organizza le feste di compleanno di Putin e le cene con ospiti tipo Bush e Chirac; ed ha contratti redditizi per le scuole e le forze armate russe. Il tesoro Usa lo aveva già sanzionato per il sostegno finanziario all’azione russa in Ucraina.
E’ sua la ‘Internet Research Agency’ di San Pietroburgo, la ‘troll factory’ che usando conti correnti e patenti americane danneggiava Hillary Clinton e favoriva Trump, riuscendo persino a organizzare da migliaia di chilometri di distanza eventi pro-Trump.