La stampa italiana celebra, in questi giorni, i fasti e le glorie del giornalismo americano, che leggende di Hollywood come Steven Spielberg, Maryl Streep, Tom Hanks, raccontano in The Post. Il film è un inno alla libertà di stampa e al valore dell’informazione a sostegno della democrazia: ambientato nel 1971, racconta la storia dei Pentagon Papers, una vicenda di depistamenti e censure negli anni della Guerra del Vietnam: i protagonisti sono Katharine Graham (la Streep), prima donna editore del The Washington Post, e Ben Bradlee (Hanks), il determinato direttore del suo giornale, che, sfidando le Autorità, pubblicò i documenti.
Andrò a vedere il film appena possibile. Io sono un grande ammiratore del giornalismo americano: appartengo a quella generazione di giovani che vennero confermati ed entusiasmati nella loro scelta di fare il giornalista vedendo ‘Tutti gli Uomini del Presidente’. Bob Woodward (Robert Redford) e Carl Bernstein (Dustin Hoffman) svelavano, sempre sul Washingtn Post – e con Bradlee direttore -, i segreti del Watergate e inducevano alle dimissioni il presidente Richard Nixon – oggi, il film, con le sue lentezze Anni Settanta, è invecchiato, ma la storia è sempre giornalisticamente bellissima -.
Nella mia vita professionale, sono stato per vent’anni corrispondente dall’estero, per sette dagli Usa dell’11 Settembre, e ho diretto l’ANSA, la maggiore agenzia di stampa italiana, dal dopoguerra spina dorsale del sistema informativo italiano. Agli studenti dei miei corsi di giornalismo chiedo di vedere, oltre a Tutti gli Uomini del Presidente, altri film: Spotlight, che racconta l’inchiesta del Boston Globe sui preti pedofili, e Truth il prezzo della verità, sulla vicenda che condusse, lungo il filo sottile come un rasoio dell’onestà intellettuale e professionale, al tramonto di un anchorman come Dan Rather. E voglio pure che vedano le tre stagioni della serie tv Newsroom, dove l’ansia di dare la notizia s’intreccia con il rigore nel controllo delle fonti e nella verifica dei dati.
Non è tutto e sempre così, il giornalismo americano. Ci sono stati momenti meno brillanti: subito dopo l’11 Settembre, ad esempio, l’orgia di risentimento, paura, patriottismo rese ciechi media e giornalismi di fronte alle violazioni dei diritti umani nella guerra al terrorismo – torture, renditions, Guantanamo – e all’ ‘invenzione’, con la complicità dell’intelligence, delle armi di distruzione di massa in Iraq per giustificare l’invasione di un Paese e il rovesciamento di un regime.
Poi, la stampa ha fatto autocritica ed è tornata a essere ‘cane da guardia’ del potere: irrilevante, magari, come l’elezione di Donald Trump ha dimostrato – tutte le grandi reti tv e tutti i quotidiani più autorevoli gli erano contro -, ma determinata a stanare le magagne dei potenti.
A leggere la stampa italiana di questi giorni, sembra quasi che le glorie americane siano anche nostre. Di certo, la stampa italiana ha avuto momenti di grandezza e persino di eroismo, negli Anni di Piombo e nel contrasto civile alle diverse mafie del nostro Paese, nell’assecondare l’impegno della magistratura durante Tangentopoli, nel non fermarsi alle verità di comodo sui grandi misteri della nostra storia recente, da Ustica alle ‘stragi di Stato’.
Ma ora il coraggio e la schiena dritta non paiono virtù precipue dei nostri media e di noi giornalisti: notizie date ‘con il bilancino’, oppure con ‘il braccino’; vicende scomode per il potere raccontate in sordina; e vicende scomode per gli avversari del potere strombazzate; leader esaltati fino al giorno della loro caduta e poi azzannati il giorno dopo. ‘The Post’ cade proprio a proposito: vedendolo, magari ritroveremo grinta e determinazione; e rispolvereremo la lealtà alla notizia, la ‘stella polare’ del nostro mestiere.