Anno 2024: in Russia, un leader resiste al potere dagli albori del Millennio. Un’intera generazione non ha conosciuto altro presidente che lui, Vladimir Vladimirovic Putin, agente del Kgb formato alla vecchia scuola sovietica e oggi così sicuro di sé in patria da provare a fare il ‘leader-maker’ all’estero, magari pure con successo. L’inchiesta sul Russiagate dirà se Donald Trump è il primo ‘manchurian candidate’ portato alla Casa Bianca da una congiura dei nemici degli Stati Uniti.
Stiamo mettendo il carro davanti ai buoi?, ci sono di mezzo le elezioni presidenziali del 18 marzo? Una formalità. Del ballottaggio dell’8 aprile, che si farà se nessuno dovesse ottenere al primo turno la maggioranza assoluta, nessuno parla: non ce ne sarà bisogno.
In parte perché Putin preferisce eliminare gli avversari prima di ritrovarseli contro sulla scheda elettorale; e talora utilizza per farlo mezzi legali, come nel caso dell’esclusione dalla corsa d’Aleksei Navalny, la cui candidatura è stata bocciata dalla Corte Suprema per via d’una condanna per appropriazione indebita. E in parte perché la sua popolarità è straripante. Putin può persino rinunciare a presentarsi alla testa di un partito: è lui, non un partito, che i russi votano.
I meccanismi e le tappe del ‘sistema Putin’
Il ‘sistema Putin’ resisterà, dunque, fino al 2024, quando il ‘presidente zar’ avrà 72 anni – sarà, dunque, ancora relativamente giovane: Trump chiuderà il primo mandato a 74 anni – e avrà già completato due cicli di due presidenze consecutive – la Costituzione ne vieta una terza -.
Ultimo premier del presidente Boris Ieltsin, alle sue dimissioni, il 31 dicembre 1999, allo scadere del Millennio, divenne capo dello Stato ad interim e fu poi eletto presidente nel maggio 2000 e rieletto nel marzo 2004. Nel 2008, scattò l’idea geniale: per rispettare la Costituzione, e intanto tenere in caldo il posto, un’alternanza interna, cioè uno scambio di posizioni ai vertici dello Stato con il fido – e mite, almeno nei suoi confronti – Dmitry Medvedev elettoralmente ‘promosso’ presidente da primo ministro, mentre Putin andava a fare il primo ministro. Alle urne, il popolo disciplinatamente eseguì.
Poi, con le elezioni del 2012, ci fu il ritorno alla normalità: Putin alla presidenza, la cui durata era stata nel frattempo portata da quattro a sei anni, e Medvedev a capo – si fa per dire – del governo. Ed ora la seconda conferma, nell’anniversario – non dev’essere proprio un caso – dell’annessione della Crimea, che diede a Putin un picco di popolarità ineguagliato.
Su quello che accadrà nel 2024, non siamo pronti a scommettere: se toccherà di nuovo a Medvedev, che sarà ancora giovane – ha solo 53 anni -; o se il giochino, causa logoramento dei protagonisti, e magari stanchezza di popolo, si sarà rotto.
La Russia di nuovo Grande Potenza da ‘hard power’
La Russia, che, nonostante lo smembramento dell’Urss, resta il più grande Paese al Mondo, più vasto d’un continente come l’Europa, con quasi 150 milioni di abitanti, ha ritrovato, nell’era Putin, il suo statuto di Grande Potenza, anche se non è più la Super-Potenza alternativa agli Stati Uniti della Guerra Fredda. Adesso, la geo-politica del Mondo globalizzato è almeno tripolare – bisogna fare i conti con la Cina -, se non proprio un gioco dei Quattro Cantoni con l’eterea politicamente, ma economicamente inevitabile, Unione europea.
Partner dell’America o freddo con l’America, a secondo dei momenti e degli interlocutori, ma sempre in prima linea nella guerra al terrorismo (specie perché i suoi avversari sono, quasi automaticamente, classificati come terroristi), Putin è stato capace di restituire alla Russia peso e ruolo internazionali perduti nel confuso e disperato decennio successivo al disfacimento dell’Urss; ed ha persino recuperato lembi di territorio sentiti come patrii e finiti altrove.
Nell’estate del 2008, la guerra di Georgia portò allo scorporo di fatto da quel Paese dell’Abkazia e dell’Ossezia, ormai gravitanti nell’orbita russa – all’epoca, presidente era formalmente Medvedev -. Nella primavera del 2014, una delle ricorrenti crisi con l’Ucraina ‘mezza russa e mezza europea’ condusse all’annessione della Crimea, mentre la situazione nel Donbass resta fluida; e c’è una fetta di Moldavia che si vuole russa, mentre restano tentazioni di riaccorpamento della Bielorussia.
Su un punto, nella politica di vicinato e in quella estera, Putin è stato costante: non ha mai fatto ricordo al ‘soft power’, che, nonostante la sua storia, la Russia non ha o non sa usare; ma ha sempre messo in campo un ‘hard power’ fatto di forza militare e di capacità energetica. Crollo del prezzo del petrolio e sanzioni dell’Onu e, a cascata, degli Usa e dell’Ue hanno fatto barcollare il Paese, ma non l’hanno fatto crollare.
Le debolezze americane e il capolavoro mediorientale
Al fianco degli Stati Uniti dopo l’11 Settembre 2001, quel tanto che bastava per reprimere in nome della lotta al terrorismo secessionismi ceceni e integralismi caucasici, Putin non esitò a innescare una reminiscenza di Guerra Fredda sul finire della presidenza Bush. Con Obama non ci fu mai feeling, forse perché l’americano si ritrovo all’inizio come interlocutore Medvedev e non capì che era solo un prestanome. Medvedev e Obama andavano abbastanza d’accordo, ma erano troppo condizionato l’uno e troppo tiramolla l’altro per mettere insieme un asse solido.
In attesa di vedere se e come andrà con Trump – gli esordi non sono stati incoraggianti, ma meglio, comunque, lo showman imprevedibile che Hillary Clinton, impregnata di diffidenza verso la Russia -, Putin, nel suo ultimo mandato, ha avuto costanza di protagonismo con reminiscenze sovietiche, specie tra Medio Oriente e Africa, e zampate da belva che difende i suoi piccoli tra Georgia e Crimea. Di che alimentare le paure ancestrali e sempre rinnovate degli europei dell’Est, che temono l’Orso Russo ai loro confini e non si sentono abbastanza garantiti dall’Ue, cercando piuttosto conforto nella Nato.
Favorito da incertezze e debolezze degli interlocutori, che siano gli Stati Uniti o l’Unione europea, troppo dipendente dal gas russo per metterglisi contro a brutto muso, Putin ha fatto fronte, facendo appello alle risorse smisurate dell’orgoglio e del patriottismo russi, all’impatto delle sanzioni. Ed ha pure ricostruito con la Cina un rapporto prammatico, spartendosi il mondo da sottrarre all’influenza degli Occidentali – ai cinesi, per ora, l’Africa australe; ai russi, Medio Oriente e Nord Africa -. Nell’attesa di esercitare prelazioni al di là del Circolo Polare Artico, dove ricchezze minerarie e/o energetiche, o anche solto valenze strategiche, potrebbero valere ulteriori esibizioni di ‘hard power’.
Il suo capolavoro, Putin l’ha fatto in Siria, dove le esitazioni dell’America di Obama e l’incostanza dell’America di Trump, capace di pugni sul tavolo e nulla più, e le reticenze e le divisioni europee gli hanno facilitato il gioco. La Russia, che era solo uno degli attori della lotta all’Isis, il sedicente Stato islamico, tra Iraq e Siria, è diventata la protagonista assoluta della Guerra Civile in Siria, salvando il regime del presidente Bachar al-Assad e massacrandone l’opposizione (naturalmente, nel segno della lotta al terrorismo). A guerra vinta, Mosca ha già potuto ‘riportare a casa’ i militari dalla Siria: quel che Washington non riesce a fare dall’Afghanistan, dopo oltre 16 anni di guerra non vinta.
Contestualmente, Putin ha riaffermato e consolidato il rapporto con l’Iran – l’asse Mosca / Teheran si confronta oggi con quello Washington / Riad – e ne ha creato uno, però poco stabile e affidabile, con la Turchia di Erdogan, un uomo forte che per molti versi gli assomiglia (hanno ad esempio entrambi scarsa sensibilità per i diritti umani). Nel Nord Africa, la Russia ha presenza ed influenza in Egitto e in Libia: in entrambi i casi, gioca il potere d’attrazione che Putin esercita su uomini forti suoi simili, come l’egiziano al-Sisi e il libico Haftar.
Persona dell’anno per quanti anni?
Time scelse Putin come persona dell’anno nel 2007, Forbes lo colloca stabilmente fra le persone più potenti del Pianeta. Di qui al 2024, riconoscimenti del genere – c’è da giurarci – si ripeteranno. E se tutte le elezioni hanno un prezzo, quelle russe paiono in saldo. Il fondo elettorale di Vladimir Putin ha finora ottenuto oltre 400 milioni di rubli – meno di sei milioni di euro – compresi i nove milioni di rubli già spesi per la produzione e la distribuzione di materiale informativo. Vengono quasi tutti da donazioni di associazioni, enti, imprese, fra cui 28 milioni dal partito negletto Russia Unita.
Negli Stati Uniti, una campagna presidenziale si misura su miliardo di dollari, cento volte di più. E, a giudicare dai risultati, non si direbbe un buon affare.