In Corea, il più facile è fatto: una tregua olimpica non si nega a nessuno, neppure al più acerrimo nemico, figuriamoci al fratello separato – nella stessa penisola -. Adesso, resta il più difficile: fare il salto dallo sport al nucleare e coinvolgere Cina e Russia, che non aspettano altro, e Usa e Giappone, che sono invece diffidenti. Ci si penserà nella scia dei Giochi, sempre che, nel frattempo, Kim Jong-un non si faccia prendere da fregole atomiche o missilistiche o dalla voglia di protagonismo.
Per il momento, il terzo dittatore della dinastia comunista ha preso in contropiede Donald Trump, autoproclamatosi ‘genio’, e la diplomazia statunitense: con il discorso di Capodanno, Kim ha spinto il presidente americano allo sguaiato litigio su chi ha il bottone nucleare più grosso e s’è smarcato rilanciando, con un rovesciamento di fronte, il dialogo con il presidente sudcoreano Moon Jae-in.
Moon, che sulla ripresa dei contatti fra le due Coree ha costruito tutta la sua campagna elettorale e che mal tollerava d’essere menato da Trump di esercitazione in esercitazione per fare paura a Kim (o almeno ricambiargli pan per focaccia), ha subito raccolto la sollecitazione, senza chiedere permesso a Washington. E l’Amministrazione statunitense ha dovuto fare buon viso a cattivo gioco: Trump ha pure provato ad arrogarsi il merito della svolta, come se lui avesse messo alle strette Kim – ma pure lui sa che non è vero -.
Dopo due anni di comunicazioni interrotte, il processo s’è sbloccato in meno di una settimana. E, ieri, il primo incontro “ad alto livello” a Panmunjon, villaggio sul confine ‘demilitarizzato’, ma presidiatissimo, che taglia in due la penisola coreana lungo il 45° parallelo, ha subito sortito “fumata bianca”: la Corea del Nord invierà una delegazione ai Giochi invernali di PyeongChang, lontano dalla frontiera poche decine di chilometri dalla frontiera. Nella delegazione, ci saranno atleti – due pattinatori già qualificatisi -, dirigenti, sostenitori, gruppi artistici, un team dimostrativo di taekwondo (l’arte marziale propria della penisola coreana) e pure una squadra di cheerleader (un’americanata, in cui le disciplinatissime asiatiche riescono benissimo). Ed è pure probabile che gli atleti sud e nord coreani sfilino insieme alle cerimonie di apertura e chiusura.
Non ci si è, però, fermati agli aspetti sportivi. Seul, secondo quanto riferito dalla Yonhap, l’agenzia di stampa sud-coreana, ha proposto di riavviare, sotto la supervisione della Croce Rossa, i colloqui sulle riunificazioni delle famiglie separate dalla Guerra di Corea – conflitto combattuto tra il 1950 e il ’53 e mai formalmente chiuso da un trattato di pace -. Ed è stato pure concordato di fare ripartire il dialogo militare per “allentare le tensioni lungo i confini”. Se ne riparlerà dopo l’inizio dei Giochi il 9 febbraio, intorno al Capodanno lunare. Intanto, verrà riaperta la ‘linea rossa’ tra Seul e Pyongyang di comunicazione militare.
Tutto bene. E, del resto, non poteva essere diversamente: un flop sarebbe stato uno smacco per Kim e Moon. Il Cremlino plaude – “Era quello che volevamo” -, la Cina segue con favore, il Giappone resta sul chi vive e auspica “maggiore pressione” sul regime nord-coreano, già sottoposto a sanzioni dell’Onu rigidissime, economiche e diplomatiche. Manca un tweet di Trump, ma arriverà di sicuro. Gongola il mondo dello sport: un colpo del genere non gli riusciva dai tempi dell’Antica Grecia, dopo gli smacchi dei boicottaggi e gli adattamenti dei Giochi agli opportunismi della politica ed alle ragioni del denaro.
Lo sbocco naturale di tanto slancio dovrebbe essere la ripresa dei negoziati a sei (le due Coree, Usa, Giappone, Cina, Russia) sui programmi nucleari e missilistici nord-coreani: sospensioni, o controlli, in cambio d’aiuti, non solo della cessazione delle sanzioni. Ma il percorso resta accidentato; e l’impulsività e la reattività di Kim e Trump non sono il viatico migliore.