Terroristi, e oppositori, tremate: lo 007 della Lubjanka, il presidente, lo ‘zar’ ha ufficialmente aperto la campagna elettorale: periodo in cui Vladimir Putin tende a fare d’ogni erba un fascio, accomunando nella repressione nemici della Russia e rivali politici. Nell’elogiare e premiare i militari distintisi nella campagna di Siria appena conclusa – missione compiuta: il presidente al-Assad resta in sella e, come risultato collaterale, il sedicente Stato islamico, l’Isis, è stato sbaragliato -, Putin ha rotto gli indugi degli inquirenti, incerti sulla matrice dell’attacco, e ha definito “un atto terroristico” l’esplosione avvenuta mercoledì sera nel centro commerciale Gigant Hall di San Pietroburgo, la sua città – s’indaga per tentata strage: ci sono stati una decina di feriti -.
Se sono terroristi, in Russia, per la proprietà transitiva della dottrina Putin, sono ceceni: un coagulo di tutte le colpe. “Ho dato ordine al direttore dei Servizi federali di Sicurezza – Fsb, la siglia post Kgb, ndr – di agire a norma di legge, e solo a norma di legge, quando impegnati nelle operazioni di arresto dei terroristi … Nel caso però in cui dovesse esserci un rischio per i nostri agenti, si dovrà agire con decisione, non catturare nessuno e uccidere i terroristi sul posto”.
L’ordine è una versione aggiornata della cinica frase “il solo indiano buono è un indiano morto” attribuita al generale delle giubbe blu Philip Sheridan, uno dei protagonisti delle Guerre Indiane che dà tuttora il nome a una delle città del Wyoming – ma la capitale ha nome indiano, Cheyenne -. Ed echeggia disposizioni già impartite da George W. Bush dopo l’11 Settembre 2001 e riesumate dai bauli della storia, dove Obama le aveva messe, da Donald Trump.
Mercoledì, Putin ha depositato, negli uffici della Commissione elettorale centrale, la domanda d’iscrizione nel registro degli aspiranti candidati alle elezioni presidenziali del 18 marzo 2018: punta a un quarto mandato e si presenta come indipendente (ovvero senza il sostegno di un partito). Dovrà pertanto raccogliere 300mila firme a sostegno della sua candidatura (passaggio non richiesto a chi corre con il supporto di un partito presente alla Duma).
Parlando ai reduci della Siria, Putin ne ha esaltato il ruolo e l’efficienza – quasi 50 mila gli uomini impegnati – e il “ruolo cruciale” nella sconfitta dell’Isis. Il presidente, nel suo discorso, è stato accomodante con l’America di Trump, cui il ministero degli Esteri russo ha formalmente proposto un accordo con garanzie reciproche di non ingerenza nelle elezioni e negli affari politici interni.
L’accordo doveva essere il risultato dei colloqui tra Putin e Trump, al Vertice del G20 di Amburgo, in luglio. Ma l’Amministrazione statunitense s’è poi rifiutato di firmare l’impegno, che, invero, suona singolare: la Russia, sotto inchiesta a Washington per le sue ingerenze nelle elezioni presidenziali Usa 2016, cerca di mettersi al riparo da comportamenti analoghi degli Stati Uniti. Putin, insomma, non vuole che Trump gli renda pan per focaccia.
Mosca considera un’ingerenza anche la critica espressa dal Dipartimento di Stato alla decisione della commissione elettorale di non ammettere la candidatura del leader dell’opposizione russa, Alexei Navalny, alle presidenziali 2018. La settimana scorsa, il ministro degli Esteri britannico Boris Johnson ha detto che ci sono “molte prove” dell’ingerenza russa nei processi elettorali di Usa, Germania, Francia e Danimarca.
Navalny indice uno ‘sciopero delle urne’ il prossimo 18 marzo, per delegittimare le elezioni, e intende organizzare controlli per evitare che i dati dell’affluenza alle urne siano ‘falsificati’: ci sarà, il 28 gennaio, una manifestazione nazionale a sostegno dello ‘sciopero delle urne’.
Un altro oppositore, Ilya Yashin, deputato municipale a Mosca, è stato fermato ieri dalla polizia davanti alla sua abitazione. Il fermo è scattato per il meeting non autorizzato di domenica scorsa organizzato da Yashin per “educare gli elettori ai loro diritti” – c’erano circa 300 persone –