Joe Biden è un anziano signore di 75 anni, con i capelli da sempre bianchi: alto, distinto, affabile, spesso sorridente, è stato per 36 anni consecutivi senatore del Delaware e per gli otto anni successivi, dal 2009 al 2017, vice-presidente degli Stati Uniti, con Barack Obama alla Casa Bianca. Ha una tendenza alla gaffe, ma non è certo uno sprovveduto; e resta il potenziale candidato democratico più popolare, nei sondaggi, assolutamente inattendibili, sulle presidenziali 2020. Come non è uno sprovveduto Michael Carpenter, ex assistente segretario alla Difesa, suo consigliere e analista dell’Atlantic Council. I due firmano su Foreign Affairs ‘Come resistere al Cremlino’, articolo che suscita polemiche in Italia.
L’affermazione che la Russia ha interferito con il referendum costituzionale italiano del 4 dicembre 2016 e che sta ora aiutando Lega e Movimento 5 Stelle in vista delle prossime elezioni politiche non è centrale nel pezzo di Foreign Affairs, autorevole bimestrale fondato nel 1922 dal prestigioso Council on Foreign Relations, con una galleria di direttori eminenti più in quanto analisti che come giornalisti, dal primo, il professor Archibald Cary Coolidge, all’attuale, Gideon Rose, uno specialista di conflitti internazionali e di Medio Oriente.
Più che a parlare del referendum italiano, Biden e Carpenter sono evidentemente tesi a sostenere che c’è lo zampino dei russi nella sconfitta elettorale subita dai democratici l’8 novembre 2016, quando Hillary Clinton fu battuta da Donald Trump: la tesi non è peregrina, visto che il Russiagate, l’inchiesta sui contatti tra la campagna di Trump ed emissari del Cremlino, vi ruota tutto intorno, con riscontri probanti. Il che non vuol dire che Trump l’ha eletto il presidente russo Putin, ma solo che ha provato a favorirlo (e forse c’è riuscito).
Sostenere che i russi non ci provano solo negli Usa, ma altrove, rafforza la tesi. La scelta tra Sì e No in Italia sarebbe solo una di tante ingerenze, dal referendum in Olanda sull’integrazione dell’Ucraina nell’Ue – i no furono quasi due terzi dei voti espressi – alle presidenziali in Francia – pro Le Pen – alle politiche in Germania – pro AfD -. E vi sarebbero tramestii russi nella vicenda della Catalogna e nelle prossime elezioni politiche italiane, pro Lega e M5S. I minimi comuni denominatori sono la difesa degli interessi russi e la promozione dei populismi.
Che ciò avvenga perché Putin è debole a casa sua o perché la Russia ha mire da Grande Potenza è parte dell’analisi di Biden e Carpenter, ma in realtà poco ci importa. La strategia di sopravvivenza dello ‘Zar’ avrebbe almeno tre importanti risvolti internazionali: difendersi dall’America, impedire ai Paesi vicini di passare all’altro campo e destabilizzare le democrazie occidentali.
E che ciò sia avvenuto, almeno nelle presidenziali statunitensi, è difficilmente contestabile, se si tiene conto delle prove accumulate nel Russiagate e pure del ruolo avuto da Wikileaks, l’organizzazione fondata da Julian Assange, che ha spesso dato l’impressione d’agire in sintonia con il Cremlino (o di prestarsi a fare da cassa di risonanza a mosse pro-russe).
Semmai possono stupire i pulpiti da cui vengono le prediche. Gli Stati Uniti hanno una radicata tradizione d’ingerenza nelle elezioni altrui, anche in quelle italiane, con sostegni finanziari e mediatici, fin dall’immediato dopoguerra. E il presidente Obama non esitò a dare un endorsement chiaro e forte al premier Renzi ed al suo Sì, alla vigilia del referendum.
L’altro verso della medaglia è che i politici italiani sono usi ad andare a Washington per cercare consensi o, almeno, per attenuare le perplessità che li circondano: è stato il caso, nell’ultimo mese, di Matteo Renzi, a inizio novembre, e di Luigi Di Maio, dal 13 al 15 novembre. Quanto a Salvini, si ritagliò un posto in panca e una photo opportunity nella campagna elettorale di Donald Trump, che, però, lo snobbò nei suoi tweet.
Denunciare ora che i russi sono cattivi solo perché, magari, si sono meglio adattati all’evoluzione delle tecnologie fa un po’ tenerezza. E un po’ rabbia.