Ce ne sono di sprovveduti, a questo mondo. Farabutti e, per fortuna, sprovveduti. Gente che pensa di prendere in castagna con una ‘fake news’ il Washington Post, giornale nella storia della stampa per il Watergate: scoprì e svelò la vicenda che costrinse a dimettersi un presidente, Richard Nixon, il 9 agosto 1974. L’inganno era stato ordito da un’organizzazione che, nel nome della verità – si chiama Project Veritas: proprio così, in latino -, mira a screditare le testate più autorevoli degli Usa, colpevoli di avere dato tutte addosso al candidato Donald Trump e di non rendere la balla semplice al presidente Trump.
Come sia scampato al trappolone tesogli, lo racconta lo stesso giornale, dopo aver allestito un team d’esperti e giornalisti per lavorare sulle storie di molestie sessuali che, come uno tsunami, stanno investendo ogni settore dell’economia e della politica negli Stati Uniti. La data d’avvio della bufera è il 5 ottobre, quando il New York Times svelò le abitudini predatorie sessuali del produttore cinematografico Harvey Weinstein.
Da allora, sono finiti nel tritacarne delle accuse vecchie di anni o di decine di anni uomini politici e di spettacolo, uomini d’affari e di cultura, persone “al di sopra di ogni sospetto” e vecchi malvissuti. Ne resta fuori, quasi per una sorta di contrappasso, il presidente, che, invece, durante la campagna, era stato accusato di molestie da diverse donne, era stato messo in difficoltà dall’uscita di un video esplicitamente sessista e aveva spesso tenuto linguaggio e comportamenti inappropriati, soprattutto nei confronti di giornaliste.
In questo clima, una donna s’è presentata al Washington Post per raccontare una storia drammatica, ma a conti fatti falsa. Il controverso candidato repubblicano all’elezione suppletiva del 12 dicembre per un seggio dell’Alabama al Senato, Roy Moore, l’aveva messa incinta quando era un’adolescente nel 1992 e l’aveva poi costretta ad abortire. Storia giornalisticamente appetibile e pure credibile, poiché Moore era già stato accusato da altre donne – e una l’accusa di averla molestata quando aveva 14 anni -.
Invece di affrettarsi a pubblicare la storia, che doveva apparentemente affossare Moore, ma che avrebbe invece macchiato la loro credibilità, i reporter del Post si sono insospettiti: hanno intervistato, cioè interrogato, la donna per due settimane e l’hanno pure pedinata quando usciva dalla redazione.
Così, l’hanno vista entrare nella sede di New York del Project Veritas, un’organizzazione che vuole “indagare e mettere a nudo la corruzione, la disonestà, la frose e altri comportamenti scorretti nel pubblico e nel privato, per realizzare una società più etica e trasparente”. Fondata da James O’Keefe, un’attivista di 33 anni, il Project Veritas si autodefinisce “la più efficace organizzazione non profit” americana. O’Keefe non ha paura delle critiche dei liberals ed è sostenuto dal sito Breitbart, dietro cui c’è l’ex consigliere speciale di Trump Steve Bannon. Prima o poi, ce lo ritroveremo candidato alla presidenza degli Stati Uniti.
Questa volta, però, gli è andata male. Il suo provocatore, la donna identificatasi al Washington Post come Jaime Philips, è stata smascherata e l’intervista di nove minuti non è stata pubblicata. Prova che le ‘fake news’, come tutte le bugie, hanno le gambe corte, se le intercetta un buon giornalista. Meno chiara la motivazione della manovra: screditare il giornale – va bene -, ma anche favorire probabilmente Moore, il candidato di Bannon che, nelle primarie repubblicane, ha sconfitto il candidato di Trump, Luther Strange, e che dovrebbe prendere in Senato il posto del segretario alla Giustizia Jeff Sessions, nominato dal presidente che se n’è già pentito e che vorrebbe scaricarlo.
Ufficialmente, Trump è per Moore, perché – dice – non può essere eletto il candidato democratico, l’ex magistrato Doug Jones. Ma, in realtà, non fa campagna per lui. “Non posso lasciare che Schumer e Pelosi – leader democratici, ndr – vincano questa gara”, twitta, senza però farsi vedere dalle parti di Montgomery.