Donald Trump torna dalla missione in Asia dopo essersi spartito la Siria con Vladimir Putin ed avere seminato zizzania fra gli alleati e partner del Sud-Est asiatico. A casa, trova un sacco di guai, giudiziari e politici. Il Russiagate s’è incancrenito: il figlio del presidente, Donald jr, era in contatto con WikiLeaks, l’organizzazione di Julian Assange, nelle battute finali della campagna di Usa 2016, allo scopo di danneggiare la candidata democratica Hillary Clinton.
E il procuratore speciale Robert Mueller indaga sull’ex consigliere per la sicurezza nazionale, Michael Flynn, e su suo figlio Michael Jr., per un piano che prevedeva la rimozione dagli Usa, forzata, di Fethullah Gulen, l’ex imam nemico del presidente turco Erdogan. I Flynn avrebbero ricevuto 15 milioni di dollari per consegnare Gulen ai turchi.
Alle accuse, Trump ribatte chiedendo al Dipartimento della Giustizia d’indagare sulla Clinton e sulla sua Fondazione, che avrebbe tratto vantaggio da un accordo sull’uranio concluso con la Russia dall’Amministrazione Obama. Il presidente torna a mettere pressione sul segretario alla Giustizia Jeff Sessions, capro espiatorio della sua frustrazione per la divisione dei poteri, che non gli è evidentemente chiara, tra esecutivo e giudiziario.
C’è fermento anche per il tentativo d’imporre la vendita della Cnn come condizione al ‘matrimonio’ fra At&t e Time Warner. Per i paladini della libertà di stampa, Trump sta così compiendo un abuso di potere: “Questo è il comportamento dei leader nelle dittature, non nelle democrazie”. A scuola, nei giorni scorsi, dal cinese Xi e dal russo Putin, Trump avrà magari imparato qualcosa in materia. O è lui il maestro della museruola alla stampa?
Il Partito repubblicano appare allo sbando: a poco meno di un anno dal voto di Midterm, Trump delude la minoranza che lo ha eletto e coagula contro di sé e il partito una maggioranza composita fatta di donne, neri, ispanici, omosessuali e transgender. I maschi bianchi e la ‘cintura operaia’ abbacinata dai messaggi populisti non bastano più a fare tornare i conti elettorali.
Nell’Unione, ha pure fatto storcere il naso la familiarità del presidente con i leader filippino Rodrigo Duterte, un assassino dichiarato e teorico degli ‘omicidi legali’ di spacciatori e trafficanti. A Manila, i due, vestiti del tradizionale camicione blu filippino, hanno avuto uno scambio di idee sul tema dei diritti umani e della guerra al narcotraffico.
Durante la lunga missione asiatica, Trump ha progressivamente smarrito l’aplomb presidenziale che aveva a sorpresa esibito nelle prime tappe, fino in Cina: roba da smentire, lo spazio d’una settimana, l’analisi che, prima, Le Monde faceva della sua diplomazia, “isolazionista, realista e impulsiva”. Poi, al Vertice dell’Apec, in Vietnam, il presidente ha praticamente sconfessato le aperture liberiste di Pechino, non firmando la dichiarazione comune e riproponendo il suo approccio “America first”. La musica non è piaciuta ai leader del Pacifico, favorevoli al Tpp, l’accordo di Trans-Pacific Parnership, negoziato da Obama e denunciato da Trump. E il presidente cinese Xi Jinping s’è preso la leadership della congrega, sposando la linea liberista e anti-protezionista.
Nonostante “l’accoglienza imperiale” ricevuta in Cina e il “bagno di popolarità” in Vietnam, dove Trump ha un indice di gradimento quasi doppio di quella in patria – tre vietnamiti su cinque hanno fiducia in lui -, la missione asiatica si chiude in sordina: i Paesi dell’Apec e poi quelli dell’Asean confermano patti anti-protezionismo e pro libero scambio cui gli Usa non aderiscono. Il piano Usa di contenimento della Cina chiamato “libero e aperto Indo-Pacifico” non fa, invece, l’unanimità … di qui in avanti, il pezzo prosegue con stralci di post già pubblicati …