L’incontro tra Putin e Trump è stato brevissimo: poco più della stretta di mano con scambio di battute di circostanza, al momento della foto di famiglia, che aveva deluso molte attese al primo giorno del Vertice Apec. Eppure, quasi quattro mesi dopo il primo e più strutturato bilaterale di Amburgo, al G20, Cremlino e Casa Bianca provano a costruire sul colloquio l’impressione d’una ‘luna di miele’ tra i presidenti russo e americano.
Vladimir Putin e Donald Trump esprimono impegno comune per sovranità, indipendenza e integrità della Siria, proprio mentre il Medio Oriente conosce tensioni più forti che mai tra i loro principali partner, l’Iran e l’Arabia Saudita; e tentano di lasciarsi alle spalle gli strascichi del Russiagate, che, dal giorno dell’elezione di Trump, inquina i loro rapporti. Come già fece ad Amburgo, Trump chiede a Putin se si sia mai intromesso nelle elezioni americane e il russo nega: dice che “le accuse sono fantasie”. Al magnate presidente tanto basta per considerare la questione chiusa. E Putin nota compiaciuto che Trump appare “a suo agio” nei loro dialoghi.
Il problema è che quanto filtra dal “brevissimo colloquio” – la definizione è del Cremlino – è poco verosimile. Se a Trump sul Russiagate basta la parola di Putin, è escluso che gli inquirenti Usa, politici o magistrati che siano, se ne accontentino. Tanto più che l’inchiesta è andata avanti, mentre il presidente era in Asia: sotto torchio, è finito pure Stephen Miller, consigliere politico di Trump e figura di primissimo piano alla Casa Bianca. E la sensazione è che le indagini siano ben lontane dalla conclusione.
Ancora meno verosimile l’impegno espresso “per la sovranità, l’indipendenza e l’integrità” siriane, che suona, piuttosto, come un patto per la spartizione del Paese in aree d’influenza. Anche l’invito alle parti in conflitto di aderire al processo di pace di Ginevra appare vacuamente retorico, visto che russi e iraniani stanno conducendo loro colloqui paralleli ad Astana e hanno già individuato quattro ‘aree franche’ in territorio siriano. Putin e Trump, del resto, vi fanno esplicito riferimento, confermando l’importanza delle zone di de-escalation in Siria come misura provvisoria per ridurre la violenza e favorire una soluzione della crisi e discutono l’attuazione della zona di de-escalation sud-ovest, già ipotizzata ad Amburgo in luglio.
Non è affatto chiaro, però, quali potranno essere gli spartiacque in Siria dell’influenza russa e americana, geografici o politici o economici: Mosca è pro Assad e, sul terreno, appare oggi avere posizioni migliori; Washington è contro il regime, ma è meno presente sul territorio ed ha alleati meno affidabili. La dichiarazione congiunta sulla Siria ribadisce e il rifiuto di una soluzione militare della crisi e l’impegno comune a continuare gli sforzi congiunti nella lotta contro il sedicente Stato islamico, l’Isis, fin quando non sarà sconfitto – un risultato praticamente già raggiunto -.
I tentennamenti americani a ridosso del bilaterale in Vietnam hanno suscitato malumori russi, che non evocano una ‘luna di miele’. Poco prima del colloquio, il ministro degli Esteri di Mosca Lavrov si sfogava con espressioni non diplomatiche: “Abbiamo sentito che il presidente Trump voleva incontrare il presidente Putin: cosa dicano i suoi burocrati da quattro soldi non lo so, domandate a loro”.
La missione di Trump in Asia, che ha avuto il suo culmine in Cina, con “un’accoglienza imperiale”, s’è chiusa in sordina al Vertice dell’Apec in Vietnam, nonostante che qui la sua popolarità sia quasi il doppio di quella in patria: tre vietnamiti su cinque hanno fiducia in lui. I Paesi che s’affacciano sul Pacifico firmano un patto anti-protezionismo e pro libero scambio cui gli Usa non aderiscono, contraddicendo con una scelta isolazionistica le aperture verbalmente fatte a Pechino. Il loro piano di contenimento della Cina chiamato “libero e aperto Indo-Pacifico” non fa, invece, l’unanimità.
Al ritorno negli Usa, Trump è atteso da altre grane: il procuratore speciale Robert Mueller starebbe indagando sull’ex consigliere per la sicurezza nazionale, Michael Flynn, e su suo figlio Michael Jr., per un piano che prevedeva la rimozione a forza dagli Usa di Fethullah Gulen, l’ex imam nemico del presidente turco Erdogan. I Flynn avrebbero ricevuto 15 milioni di dollari per consegnare Gulen ai turchi.