Il “sol dell’avvenir” è sempre più radioso all’Est: il popolo e la nazione cinesi “hanno davanti a sé un luminoso futuro”, dice Xi Jinping, confermatissimo segretario generale del Partito comunista cinese, e presidente della Repubblica popolare, chiudendo i lavori del XIX Congresso. E aggiunge: “In questo grande momento, ci sentiamo più fiduciosi e orgogliosi e, allo stesso tempo, avvertiamo un forte senso di responsabilità”.
Lui, personalmente, ne ha ben donde: il suo pensiero è ormai inserito nella Costituzione cinese, accanto a quelli di Mao Tse-tung e di Deng Xiao-ping: tre pietre miliari nel cammino della Cina dopo la Seconda Guerra Mondiale, prima comunista e collettivista, tra libretto rosso e cento fiori; poi nel 1978 aperta alle quattro modernizzazioni e prammatica, “Non importa se un gatto è bianco o nero, finché cattura i topi”; ora pronta non solo a inserirsi nella globalizzazione ma a sfruttarla.
Lasciando i cinesi liberi di coltivare il proprio sogno, che non è la democrazia o la libertà d’espressione, ma il benessere e la ricchezza. Sgomitando fra di loro e nel Mondo.
Forte e solido all’interno, ragionevolmente sicuro di restare al potere fino al prossimo Congresso, nel 2022. Xi deve ora prendere le misure ai suoi interlocutori internazionali. Ma il leader cinese s’è già portato avanti, con la Russia, l’Europa, gli Usa, mentre l’Africa è un terreno di conquista economico e commerciale e il Medio Oriente un ginepraio in cui lasciare avventurarsi Mosca e Washington, se proprio ci tengono – senza però rinunciare all’asse con Teheran -.
Con Vladimir Putin, Xi ha apparentemente ben poco in comune di personale: se non ne condivide gli atteggiamenti muscolari, pratica, però, un decisionismo ‘in salsa cinese’, cioè con sfumature di saggezza orientale. E Russia e Cina hanno interessi paralleli, strategici, economici, energetici, specie davanti alla minacciosa imprevedibilità dell’interlocutore americano di questi tempi.
Con l’Europa di Angela Merkel e, ora, del presidente Emmanuel Macron, il feeling è grande, se si chiude un occhio sulle libertà fondamentali e sui diritti dell’uomo: la Cina di Xi è, con l’Ue, paladina della tutela dell’ambiente e della lotta contro i cambiamenti climatici e pure della libertà degli scambi – un paradosso, innescato dall’atteggiamento statunitense: Pechino occupa gli spazi che Washington abbandona -.
E, infatti, con l’America di Donald Trump, la presa di distanze e il colpo di freno è stato immediato: a Xi, non è ancora andato giù il dolce, servitogli a cena in Florida a marzo dal magnate presidente, insieme al bombardamento a sorpresa della Siria. Da quando Trump s’è insediato alla Casa Bianca, l’impressione è che Xi stia seduto sulla riva del fiume della storia ad aspettare che passi il cadavere del nemico. La Cina ha 3000 anni di storia e tempi più lunghi d’un mandato presidenziale Usa; e non avverte la pressione dell’opinione pubblica, che resta relativamente silente, essendo troppo impegnata a fare soldi.
I presupposti c’erano già tutti nel discorso fatto a Davos, tempio della globalizzazione, in gennaio, quando Trump doveva ancora insediarsi alla Casa Bianca, ma aveva già individuato nella Cina, commercialmente ed economicamente, il grande nemico della sua America “di nuovo grande”. E lì a Davos Xi s’era presentato come il nuovo campione del libero scambio.
La nuova idea di Cina proposta al Mondo, in attesa di centrare l’obiettivo 2020 di una “società moderatamente prospera” e quello del centenario, nel 2049, di un “Paese sviluppato”, ‘batte in testa’ solo con i vicini di casa: con il Giappone di Shenzo Abe, moderatamente nazionalista e bellicista, riemergono diffidenze e rancori mai sopiti; e, in Corea del Nord, Kim il giovane, il terzo rampollo dell’anomala dinastia comunista, è riottoso ad ascoltare i consigli di Pechino. Con il pericolo d’innescare una guerra sull’uscio della Cina: Xi non la vuole, ma rischia di subirla.