Raqqa è caduta, Raqqa è libera: dopo Musul, la capitale irachena, il sedicente Stato islamico, l’Isis, perde pure la capitale siriana. Ma il cubo di Rubik mediorientale è lungi dall’essere risolto. I curdi, protagonisti della battaglia di Raqqa, s’attendono d’essere ricompensati dagli Stati Uniti e – divisi fra di loro – sognano l’indipendenza; ma si ritrovano sotto attacco in Iraq, a Kirkuk.
I miliziani integralisti, foreign fighters e guerrieri locali, non hanno più un territorio da difendere, ma restano capaci di azioni terroristiche. E le scelte contraddittorie del presidente Trump, che lusinga le monarchie sunnite, dove gli jihadisti hanno appoggi e da dove traggono finanziamenti, e antagonizza l’Iran, in prima linea in Iraq e con i suoi alleati in Siria contro l’Isis, non favoriscono una composizione pacifica del tormentato scacchiere.
L’assalto finale a Raqqa era partito sabato scorso. La presa è stata ieri annunciata dalle Sdf, le Forze democratiche siriane, a predominanza curda, sostenute dalla Coalizione internazionale a guida Usa. L’Osservatorio siriano per i diritti umani (Ondus), una fonte non sempre affidabile, aveva anticipato la notizia. Fonti umanitarie parlano di tremila caduti a Raqqa in un anno.
Le milizie curde hanno issato la propria bandiera all’interno dello stadio, ultimo bastione dell’Isis, mentre ancora tutto intorno proseguivano sporadici combattimenti. Tremila civili, ma anche centinaia di jihadisti – in merito, le informazioni sono contrastanti – erano stati evacuati da Raqqa domenica, dopo un accordo raggiunto tra le Sdf e lo Stato islamico con la mediazione di capi tribali locali. L’intesa non è stata avallata dagli Stati Uniti e dagli alleati occidentali: in Europa, c’è preoccupazione per l’onda d’urto del ritorno dei ‘foreign fighters’.
Lanciata l’azione finale, i miliziani dell’Isis rimasti a resistere, fra cui numerosi ‘foreign fighters’ – qui c’erano i cervelli degli attentati a Parigi nel novembre 2015 – s’erano asserragliati in un’area molto ristretta del centro cittadino, praticamente distrutto. Ieri mattina, i curdi avevano conquistato piazza al Naim, tragicamente celebre perché teatro delle esecuzioni pubbliche dei boia integralisti, e erano poi andati all’attacco dello stadio, divenuto luogo di detenzioni e uccisioni.
Testimoni riferiscono che la determinazione e la ferocia dei miliziani jihadisti sono evaporate, man mano che il conflitto volgeva a loro sfavore: nel giro di una settimana, in Iraq, oltre mille jihadisti hanno deposto le armi e si sono resi prigionieri. A Mosul era stata catturata anche Linda Wenzel, una ragazza tedesca di 16 anni, che sta raccontando ai magistrati iracheni come s’unì ai miliziani. Neppure la voce registrata dell’autoproclamato Califfo Abu Bakr al Baghdadi, diffusa giorni fa, anche per smentirne l’uccisione, ha rincuorato i suoi seguaci. Non è chiaro, del resto, quando sia stata fatta la registrazione.
Ma proprio in parallelo alla battaglia di Raqqa, più a Est, in Iraq, le forze irachene stanno svolgendo un’offensiva per impadronirsi della città di Kirkuk, centro petrolifero nevralgico in mano ai curdi. E’ la risposta al referendum per l’indipendenza svoltosi a fine settembre nel Kurdistan iracheno, che già gode di larga autonomia. L’esercito iracheno e le forze curde sono tutti armati ed equipaggiati da americani e occidentali.
Le forze irachene stanno inanellando successi, profittando della rotta dell’Isis: controllano ormai Hawija, 65 chilometri a sud-ovest di Kirkuk, una ridotta dei miliziani, e Tal Afar, nel nord, roccaforte dell’Isis nella provincia di Ninive. In Siria, muovono contro l’Isis i lealisti a Dayr az Zor e i qaedisti ad Hama. Il Califfato si sgretola, anche se ciò non significa la fine dello jihadismo.
Lo scontro in atto tra curdi e iracheni in Iraq; i fermenti fra i curdi di Siria, che sognano anch’essi d’uno Stato curdo; l’ostilità ai curdi dei governi centrali di Damasco e Baghdad e, ancora di più, Ankara e Teheran; tutto ciò complica il quadro della regione, ulteriormente liso dal deterioramento dei rapporti tra Usa e Iran. E mentre Washington deve gestire un dissidio armato fra suoi alleati, altri suoi alleati, i sauditi e i turchi, fanno shopping d’armi a Mosca, mentre, in funzione anti-curda, si parlano persino Teheran e Ankara.