Di armi, gliene hanno trovate a bizzeffe: nella camera d’albergo al Mandalay Bay Resort and Casino, nell’auto e a casa. Ma uno straccio di movente credibile, Steven Paddock non ce l’aveva, o almeno non glielo hanno ancora scoperto, per uccidere 59 persone e ferirne oltre 520, domenica notte, durante un festival del country a Las Vegas.
E mentre il lavoro di ricomposizione delle salme e di identificazione delle vittime va ancora avanti, il presidente Trump pospone a un futuro indeterminato l’ipotesi di una legge che regoli la vendita delle armi: “Ne parleremo più in là”, dice partendo per Portorico, devastata da un uragano. Oggi, Trump sarà a Las Vegas: un viaggio nei sinistri dell’America, cominciato in Texas e in Florida dopo Haley e Irma.
Il killer di Las Vegas ha sparato sul pubblico del concerto utilizzando un vero e proprio arsenale, manipolato per essere più letale: i fucili erano stati resi automatici, armi da guerra, grazie a un kit che ci si procura facilmente. Nella sua suite al 32° piano dell’hotel, gli investigatori hanno infatti trovato 23 armi da fuoco; e un’altra ventina sono state scoperte nell’auto e nella casa di Mesquite, dove abitava. Nell’auto, c’era pure nitrato d’ammonio, atto a fabbricare esplosivi.
Nonostante l’orrore e l’angoscia di queste ore, una svolta di Trump sulla questione delle armi appare estremamente improbabile ed è addirittura esclusa dall’ex consigliere della Casa Bianca Steve Bannon: “E’ impossibile: sarebbe la fine di tutto”. Secondo Bannon, tornato a dirigere il sito di ultra-destra Breitbart, la base elettorale del magnate presidente reagirebbe malissimo.
Con l’avallo di Obama e della Clinton, i democratici in Congresso vanno all’attacco sulle armi: rinnovano la richiesta di una legge che rafforzi i controlli sulla vendita. Il loro leader al Senato, Chuck Schumer, chiede che il Congresso approvi “leggi capaci di limitare la diffusione delle armi, specialmente le più pericolose, e di evitare che finiscano nelle mani sbagliate”. E la loro pugnace leader alla Camera, Nancy Pelosi, chiede allo speaker Paul Ryan di costituire una commissione ad hoc per lavorare a nuove norme.
Ma Ryan, rilanciando l’appello del presidente all’unità e alla preghiera dopo la strage di Las Vegas, non avalla alcuna nuova misura per rafforzare i controlli sulle armi. Unica concessione è il blocco, per ora, di un progetto di legge che allenta le norme sui silenziatori, sostenuto dalla Nra (la lobby delle armi) ma contestato dai democratici: “Al momento, il progetto di legge non è in calendario. E non so quando lo sarà”, dice Ryan. Se fosse stato in vigore, Paddock avrebbe potuto sparare molto più a lungo senza essere individuato.
Ma si sa come vanno a finire queste cose negli Usa, dove c’è più di un’arma da fuoco per ogni individuo adulto e dove i morti da arma da fuoco sono 33 mila circa l’anno, quasi 10 al giorno. L’opinione pubblica resta scossa per qualche giorno e la politica pare in fibrillazione; e poi l’eco della strage si attenua e la politica è ben contenta di scordarsene, evitando di mettersi in rotta di collisione con la lobby delle armi che averla a favore aiuta ed averla contro è letale.
Il recupero delle salme era ancora in corso ieri mattina a Las Vegas e l’identificazione delle vittime appena all’inizio. Sonny, 29 anni, infermiere del Tennessee, è stato il primo a essere identificato. Ma la lista s’è poi infittita soprattutto di nomi di donne: Rachael, la poliziotta di Manhattan Beach, e Sandra, la professoressa californiana; e, ancora, Jenny la maestra d’asilo, Susan l’impiegata, Lisa la segretaria, come Bailey. Non ce l’hanno fatta Denise, 50 anni, nonna della West Virginia, Rhonda, designer di Boston, Jennifer ed Angie – appena 20 anni – entrambe della California, Jessica del Canada e Neysa, un’imprenditrice. La moglie di Sonny Melton racconta al New York Times come il marito l’abbia aiutata a mettersi in salvo, ma non ce l’abbia fatta a schivare la morte.
Uccise/uccisi perché? “Un uomo malato, un pazzo”, dice Trump, che si ferma alla spiegazione più banale. La vita di Paddock, pensionato di 64 anni, figlio di padre criminale, senza problemi di soldi grazie – pare – ad alcuni fortunati investimenti immobiliari, giocatore esperto, quasi professionista, è piena di buchi: il suo ultimo lavoro a tempo pieno risale a trent’anni or sono. Se la rivendicazione dell’Isis appare inattendibile, un movente credibile non c’é. Eppure, Steven è stato determinato fino all’ultimo: ha sparato attraverso la porta agli agenti, prima di suicidarsi.