Giocare a fare la guerra. Con il rischio di trovarsi a farla davvero. Perché un errore può sempre scapparci. E perché, quando i leader sono personaggi impulsivi, come il dittatore nordcoreano Kim Jong-un o il magnate presidente degli Stati Uniti Donald Trump, possono sempre avere reazioni imprevedibili.
Gli Stati Uniti hanno ieri simulato nei cieli coreani, con il coinvolgimento di Giappone e Corea del Sud, un bombardamento aereo, una vera e propria azione di guerra. Quasi contemporaneamente, Cina e Russia hanno iniziato esercitazioni navali. Per tutta risposta, il regime di Pyongyang ha ribadito di volere “completare” il proprio statuto di potenza nucleare – che cosa significhi non è chiaro -.
Kim aveva spiegato, dopo l’ultima provocazione – cioè il lancio bis d’un missile a lungo raggio, con traiettoria sopra il Giappone – e le consuete reazioni, un mix d’anatemi e sanzioni, di volere raggiungere “un equilibrio di forze reale” con gli Usa. Trump l’aveva ridicolizzato qualificandolo di ‘rocket man’, dopo che il generale McMaster, consigliere per la sicurezza nazionale, evocava l’opzione militare e la diplomazia americana minacciava “la distruzione” della Corea del Nord – parole di guerra -.
La crisi coreana è un tema centrale dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, che, da oggi, vede sfilare al Palazzo di Vetro leader di mezzo mondo – per Trump, è l’esordio -. Ma l’andatura a zig-zag degli Stati Uniti crea ansie e preoccupazioni, anche e forse soprattutto nei vicini di casa della Corea del Nord, e alimenta paure e illusioni su altri fronti: da una parte, rimette in bilico l’accordo con l’Iran sul nucleare – il che non migliora la stabilità internazionale -; dall’altra, ipotizza marce indietro del tutto aleatorie sul clima.
L’azione militare di ieri non è forse stata una prova di forza fine a se stessa, ma mirava a testare le capacità di difesa aerea nord-coreane. Quattro caccia-bombardieri F-35B, aerei ‘invisibili’, e due bombardieri strategici di vecchio tipo B-1B hanno simulato un bombardamento strategico, come monito al regine di Pyongyang.
Gli aerei Usa, che erano affiancati da quattro F-15K sud-coreani, hanno poi fatto rientro alle basi, rispettivamente, in Giappone e a Guam. Secondo l’agenzia di stampa sud-coreana Yonhap, è stata la prima volta che aerei Usa si sono avvicinati così tanto alle frontiere nord-coreane.
Fonti di Seul hanno detto: “Gli aerei hanno sganciato bombe inerti nel campo di tiro di Pilseung – distante poche decine di chilometri dal confine, ndr – e a Taebaek, nella provincia di Gangwon. Le esercitazioni sono durate da mezzogiorno alle 14.30” ore locali, dalle 05.00 alle 07.30 italiane.
Il ministero della Difesa sud-coreano ha definito le esercitazioni “parte di manovre regolari, finalizzate a rafforzare la capacità di deterrenza”. Washington e Seul non intendono fermarsi qui: “Nei prossimi giorni, le Marine di Corea del Sud e Usa dimostreranno la loro interoperatività, coinvolgendo anche i bombardieri strategici americani”.
Insomma, l’escalation non accenna ad arrestarsi e il negoziato non si rimette in moto. Trump ne parla al telefono con il presidente cinese Xi Jinping, chiedendogli di farsi ascoltare a Pyongyang; Il premier giapponese Shinzo Abe afferma che “è il momento di esercitare pressione” su Kim, non di dialogare; e persino l’Europa chiede di “aumentare la pressione”, sia pure diplomatica.
Con la speranza che, giocando alla guerra, Kim e Trump non si ritrovino a farla davvero. E noi con loro.