Un missile balistico a medio raggio, lanciato dalla Corea del Nord, sorvola l’isola di Hokkaido, nord del Giappone, e finisce in acqua nel Pacifico settentrionale, dopo un volo di ben 2.700 km, direzione Est-Nord-Est. Il vettore era disegnato per trasportare un’ogiva nucleare, assicurano esperti sud-coreani.
La mossa, la più aggressiva finora compiuta da Pyongyang nei confronti di un alleato degli Usa, viene interpretata dai media dell’Estremo Oriente come un monito a Washington e Seul perché cessino le loro manovre militari su vasta scala ai confini nordcoreani.
Per tutta risposta, la Corea del Sud ha condotto manovre aeree, sganciando otto bombe proprio lungo il 38° Parallelo. Su richiesta di Washington, Tokyo e Seul, il Consiglio di Sicurezza dell’Onu s’è riunito ieri sera a New York per discutere “sulle minacce a pace e stabilità” rappresentate dalla Corea del Nord.
Il presidente Usa Donald Trump e il premier nipponico Shinzo Abe si sono parlati al telefono, convenendo di mantenere viva la pressione su Pyongyang, di fronte a una minaccia giudicata “grave e crescente”. Francesco Sisci, massimo esperto italiano di Estremo Oriente, non esclude che “il missile sul Giappone di Kim faccia premere il grilletto a Trump”.
Perché avere paura
L’irrobustimento numerico e tecnologico dell’arsenale nucleare e missilistico nord-coreano è uno degli elementi di pericolosità della crisi. Il regime sta intensificando i lanci – già 22 quest’anno, contro i 21 record dello scorso anno – e dispone d’un numero di ogive oscillante, a seconda delle fonti, fra le 20 e le 30. Di che condurre un attacco devastante, anche se, dopo, la Corea del Nord si troverebbe praticamente disarmata di fronte a una ritorsione.
Ma le due incognite peggiori restano l’inaffidabilità dei missili e dei sistemi nord-coreani e l’imprevedibilità e l’impulsività dei leader dei due Paesi. L’imprecisione di tiro nord-coreana e l’elevato numero di test falliti sono tutti presupposti di un tragico errore: un missile che, invece di finire in mare, cada dove non doveva cadere e faccia danni.
Oltre a ciò, ci sono la tendenza del presidente Trump e del dittatore Kim a giocare al rilancio, invece che smorzare e stemperare, e l’impulsività sovente dimostrata. Ieri, tutti i leader interessati esprimevano preoccupazione e invitavano alla moderazione, mentre loro due attizzavano la polemica. “Tutte le opzioni sono sul tavolo”, ribadisce Trump, secondo cui Pyongyang “mostra disprezzo per i vicini e per l’Onu”. E a chi gli chiede “che cosa farete?”, il presidente risponde con un laconico e velatamente minaccioso. “Vedremo”. Dal canto suo, Kim ammonisce Washington sulle “conseguenze catastrofiche” di un’eventuale ritorsione.
Perché fare spallucce
A dare alla crisi nord-coreana la percezione d’un bluff dall’una e dall’altra parte, o di prove di forza ad uso e consumo più delle opinioni pubbliche interne che dei risvolti internazionali, ci sono tutta una gamma di considerazioni di buon senso e d’opportunità diplomatica. E soprattutto c’è l’assenza d’una qualsiasi giustificazione geo-strategica od economica all’eventuale conflitto: Kim III non può credere che il suo regime sopravviva a un confronto nucleare; Trump non ne ricaverebbe vantaggi.
Però le borse, almeno ieri, a caldo, dimostravano di fidarsi poco: borse in calo, oro in forte rialzo, come accade quando il Mondo traballa – azioni e dollari diventano carta straccia, i beni rifugio tengono -. Ma, a sera, Wall Street sembrava avere già esorcizzato l’ondata di paura che dall’Asia aveva contagiato l’Europa.
Del resto, è difficile tenere i nervi saldi quando il premier Abe parla di una crisi “mai così grave” e le autorità nipponiche fanno suonare l’allarme anti.-missile e invitano con milioni di sms i cittadini a “mettersi al riparo”.
Di “morire per Pyongyang”, non ha voglia nessuno. Le reazioni internazionali sono una litania: Antonio Guterres, segretario generale dell’Onu, condanna il lancio del missile e teme che esso “pregiudichi il dialogo”; Federica Mogherini, alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza dell’Ue, parla di “seria minaccia per la pace e la sicurezza”; “intransigenti” con la Corea del Nord, assicura Emmanuel Macron, il più ‘trumpiano’ degli europei quando c’è da fare a chi è più tosto; Theresa May parla di una “sprezzante provocazione”; dall’Italia arriva la banale “ferma condanna” di Angelino Alfano.
Cinesi e russi non assecondano i toni talora parossistici del presidente Trump, ma non offrono neppure appiglio a Kim III: la Cina chiede al dittatore “autocontrollo”, la Russia sollecita Pyongyang a rispettare le risoluzioni dell’Onu e, nel contempo, giudica “l’opzione delle sanzioni ormai esaurita” e si propone come mediatore.
Una via d’uscita potrebbe essere quella del cosiddetto doppio congelamento, propugnata da Mosca e Pechino in un comunicato ministeriale congiunto diramato il 4 luglio. La ricorda il vice-ministro degli Esteri russo Serghiei Riabkov: “Basta test e azioni che inaspriscono la situazione, da parte della Corea del Nord; e basta tentazioni di usare la forza o strumenti militari per esercitare pressioni, dall’altra parte”.
Pechino è convinta che la via delle sanzioni non porti al dialogo. Mosca non vuole lo spiegamento di sistemi di difesa anti-missili Usa in Giappone e Corea del Sud.
Chi minimizza la minaccia, la butta sul tenero: il missile sul Giappone sarebbe ‘solo’ un fuoco d’artificio per un lievo evento a casa Kim, la nascita del terzo figlio, o figlia. Ma i servizi d’intelligence sud-coreani sono cauti: il ‘lieto evento’, se c’è stato, risalirebbe a febbraio.
I grandi rischi
Dalla Corea alla Corea. Dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, l’arco della paura dell’Olocausto nucleare è tutto racchiuso tra due crisi coreane: quella del 1953 e l’attuale. Nel 1953, il conflitto nella penisola e i test d’ordigni termonucleari da parte di Usa e Urss – con la Gran Bretagna, le uniche potenze atomiche all’epoca – fecero sì che l’Orologio dell’Apocalisse arrivasse a segnare due minuti alla fine del mondo.
L’orologio è un’invenzione degli scienziati atomici dell’Università di Chicago – quella dove insegnava Enrico Fermi -: creato nel 1947, misura la distanza dalla fine del mondo ‘atomica’ simboleggiata dalla mezzanotte.
L’acme della paura nucleare di questo dopoguerra si tocca nel 1962: è la crisi dei missili di Cuba, che iniziò il 15 ottobre e durò 13 giorni. Lo spiegamento segreto di ordigni nucleari sovietici a Cuba, da dove potevano raggiungere in tempi brevi gli Stati Uniti, innesca la reazione americana. I presidenti Kennedy e Kruscev trovano un’intesa quando lo scontro pare orma inevitabile: i missili russi furono ritirati, come quelli americani installati in Turchia e in Italia.
Vent’anni dopo, all’inizio degli Anni Ottanta, altre nubi sull’orizzonte mondiale: l’Urss invade l’Afghanistan, gli Usa boicottano i Giochi di Mosca, la Polonia sperimenta i fermenti di Solidarnosc, la Nato decide di installare gli euromissili, i sovietici abbattono un velivolo di linea sudcoreano sulla Kamciakta e boicottano i Giochi di Los Angeles, Reagan definisce l’Urss l’Impero del Male. A Mosca si succedono leader effimeri – dopo Brezhnev, Cernienko e Andropov -, il che aumenta l’incertezza e le fibrillazioni. L’Orologio dell’ Olocausto segna -3 alla mezzanotte: mai così male dal 1953.
Il dissolvimento dell’Urss, lo sfaldamento della Jugoslavia, gli attacchi terroristici agli Usa dell’11 Settembre 2001, la proliferazione della bomba, il rischio che ordigni nucleari finiscano a Stati canaglia causano brividi di guerra, ma le paure atomiche restano contenute. Finché, a partire dal 2007, i programmi nucleari e le esibizioni pirotecnico – missilistiche della Corea del Nord portano di nuovo avanti l’Orologio dell’Apocalisse che segna 2 minuti e mezzo alla mezzanotte. C’entra pure l’imprevedibilità dei leader, tutti ‘uomini forti’, Trump e Kim III, Putin ed Erdogan, Assad ed al-Sisi, il Califfo e i suoi adepti.