Prima le ha firmate, poi le contesta: il supplemento di sanzioni del Congresso contro la Russia non vanno proprio giù al presidente Trump, che ha però dovuto trangugiarle come una medicina amara. “Le relazioni con Mosca sono al livello più basso di sempre: ringraziate il Congresso”, twitta, tanto per scaricare un po’ di responsabilità. E aggiunge: “Sono gli stessi che non riescono neppure a darci la sanità”, che vorrebbe poi dire a togliercela.
In realtà, di quanto successo nei suoi quasi duecento giorni alla Casa Bianca il presidente deve ringraziare soprattutto se stesso, sui fronti interno, dove ora l’accento è sulla riforma dell’immigrazione, e internazionale.
Le nuove sanzioni sono la punizione del Congresso alla Russia per le interferenze nelle elezioni Usa – quella che Trump considera una “caccia alle streghe” – e per gli interventi in Ucraina e in Siria. Ma il Congresso usa il manganello delle sanzioni anche con la Corea, l’Iran, il Venezuela, qui d’intesa con la Casa Bianca.
Il Cremlino reagisce piccato. Putin espelle dalla Russia centinaia di diplomatici americani, per fare pari e patta con quanti sono i diplomatici russi negli Usa – 455, comunque, la metà di mille -. E Medvedev, il premier, afferma che, con le nuove sanzioni, gli Stati Uniti hanno dichiarato una vera e propria “guerra commerciale”: “Finisce la speranza di rapporti migliori tra Russia e Usa, Trump si rivela impotente”. La preoccupazione è palpabile anche a Bruxelles: l’Ue rischia di restare vittima dei contrasti russo-americani.
C’è del vero, nelle parole di Medvedev; ma c’è pure un intreccio d’ipocrite compiacenze. Mosca è certo delusa da Trump, alla cui elezione aveva ‘lavorato’: l’imprevedibilità del magnate presidente e l’incoerenza delle scelte di politica estera, specie nel Medio Oriente, creano imbarazzi e diffidenze. La fiammata d’intesa accesasi ad Amburgo, nell’incontro con Putin a margine del Vertice del G20, s’è spenta in meno di un mese: Trump non mantiene le promesse e non influenza il Congresso, ma ne subisce le pulsioni dettate da considerazioni di politica interna.
Nel contempo, però, l’Amministrazione statunitense rispetta l’essenziale degli interessi economici dei due Paesi, se non altro perché così facendo rispetta gli interessi economici di alcuni suoi esponenti: le famiglia Trump e Kushner, che hanno partner d’affari russi e/o in Russia, o la Exxon del segretario di Stato Tillerson. La scelta di mandare a Mosca come ambasciatore Jon Huntsman, titolare di un’azienda con impianti in Russia, è un’ulteriore garanzia in questo senso.
Siamo dunque nella serie ‘can che abbaia non morde’. Lo conferma, in una certa misura, la baldanza di Wall Street e anche la fiducia della Bce, che preconizza una ripresa nell’Eurozona “più vigorosa delle attese” (e, quindi, non teme l’insorgere di guerre commerciali).
Scenario in fondo analogo sul fronte Usa–Cina. Il Trump candidato le cantava chiare a Pechino: lui alla Casa Bianca sarebbe stato un ‘castigamatti’, basta tolleranze per pratiche commerciali sleali (cioè, non vantaggiose per gli Stati Uniti). Poi, c’è stata una specie di luna di miele con Xi, che s’è pure visto offrire l’anteprima del bombardamento sulla Siria durante una cena ‘fra amici’ in Florida.
Adesso, Tillerson, in missione nel Sud-Est asiatico, tuona di nuovo contro la Cina sui fronti dell’economia e degli scambi: si torna ai toni della campagna. Pechino sconta la delusione di Trump per la mancanza d’incisività nei confronti della Corea del Nord. Ma, anche qui, c’è più manfrina che sostanza: tanto rumor per poco, siamo businessman, mica politicanti.