Fuori quattro: Trump è una macchina da guerra che ‘espelle’ i collaboratori come se fossero siluri. L’ultimo della lista, per ora, è Reince Priebus, capo dello staff della Casa Bianca, il primo a essere entrato nella squadra presidenziale dopo Usa 2016, insieme al consigliere speciale Steve Bannon, un altro che ora rischia grosso – anch’egli è sulla lista nera dell’ultimo arrivato, un ‘castigamatti’, Anthony Scaramucci, finanziere newyorchese e uomo comunicazione che ‘fa fuori’ i suoi avversari a raffica, prima il portavoce Sean Spicer, poi Priebus e presto, chissà, Bannon.
Trump non aveva certo bisogno di Scaramucci per imparare a ‘tagliare le teste’ dei collaboratori: aveva cominciato già prima di diventare presidente, quando nel pieno della campagna s’era sbarazzato di Paul Manafort, il manager, uno dalle maniere spicce con le donne e i sottoposti – ma questo Trump non poteva certo rimproverarglielo -, ma anche con un sacco di scheletri nell’armadio del passato di lobbista al servizio, fra l’altro, degli ucraini filo-russi.
Non contiamo neppure il licenziamento del ministro della Giustizia facente funzioni Sally Yates, che era un rimasuglio dell’Amministrazione Obama, rimasta lì in attesa che il presidente compisse le sue scelte e cacciata per avergli tenuto testa sul ‘muslim ban’. Né contiamo i procuratori generali dell’era Obama, specie quello di New York Preet Bharara, allontanati dall’incarico: Trump aveva facoltà di non confermarli.
Ad Amministrazione appena insediata, era saltato un altro dei primissimi nominati, Michael Flynn, generale, consigliere per la Sicurezza nazionale, nemicissimo dell’Iran e ben disposto invece verso la Russia. Con il suo ‘sacrificio’, Trump sperava forse di soffocare sul nascere il Russiagate: Flynn pagava qualche contatto – di troppo? – con i russi prima e dopo le elezioni, ufficialmente avuto all’insaputa del presidente e del suo vice Mike Pence.
Trump, che di Flynn si fidava, cercò di salvarlo financo con mezzi illeciti, chiedendo al direttore dell’Fbi James Comey di andarci leggero nelle indagini sul consigliere per la Sicurezza nazionale. Ma l’inchiesta si allargò – oggi tocca il segretario alla giustizia Jeff Session, il genero del presidente Jarred Kushner e il figlio primogenito Donald jr – e Comey fu licenziato da un giorno all’altro.
Con Spicer e Priebus, le ‘epurazioni’ arrivano dentro la Casa Bianca, non solo dentro l’Amministrazione. E se l’uscita di scena di Spicer crea malumori personali ma non politici, quella di Priebus potrebbe avere conseguenze nel partito. Prima di diventare capo dello staff di Trump, Priebus era il presidente del partito repubblicano ed era stato, in campagna, l’anello di collegamento tra il candidato e il partito, cercando di tenerli insieme e a fatica riuscendoci.
A fare saltare Priebus è stata l’animosità manifestata nei suoi confronti da Scaramucci, che lui aveva ‘bocciato’. E adesso il presidente gli rimprovera di non essersi difeso dal nuovo venuto: come se la Casa Bianca fosse un ring di wrestling.
E’ chiaro che Trump è in cerca di capri espiatori per i suoi insuccessi: la mancata revoca dell’Obamacare – anche il capo della maggioranza al Senato Mitch McConnell deve essere inquieto, in queste ore, anche se il suo posto non dipende dal presidente – e l’avanzata del Russiagate.
In odore di licenziamento, ci sono pure alcuni ministri: Sessions perché s’è ricusato nel Russiagate e non ha arginato l’indagine; e Tom Price (Sanità), pubblicamente ammonito da Trump nel discorso ai boyscout (“Se non mi liberi dell’Obamacare, guai a te”). Ed anche i responsabili degli Esteri e della Difesa Tillerson e Mattis hanno qualche inquietudine: loro non sono fra i fedelissimi.
Per ogni licenziato, c’è un subentrato. E Trump pesca spesso nella riserva dei militari: così, Flynn, che era un generale, è stato sostituito da un altro generale, H.R. McMaster, che sembrava una scelta di ripiego, ma che ha preso il mano con fermezza la Sicurezza nazionale; e ora al posto di Priebus va il generale dei marines John Kelly, già responsabile della Homeland Security. Kelly è un uomo di disciplina, pronto a mettere ordine in una West Wing riottosa e caotica. Naturalmente, presidente e Scaramucci permettendo.
Tutto ciò mentre il Congresso ‘dichiara guerra’ alla Russia con nuove sanzioni (e Trump abbozza, per non apparire l’ ‘amico del giaguaro’ Putin, con il Russiagate che lo lambisce) e mentre partono nuove sanzioni verso l’Iran e la Corea del Nord, che se le cerca con il secondo lancio sperimentale di un missile intercontinentale.
Trump potrebbe battere un pugno sul tavolo con Kim III, tanto per distrarre l’opinione pubblica. Ma è sabato e l’agenda dice golf nella Casa Bianca d’estate nel New Jersey. Vedremo lunedì, se farne fuori un altro a Washington o dare una lezione al dittatorello di Pyongyang.