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Terrorismo: mappa degli attacchi e percorsi degli jihadisti

Scritto in collaborazione con Matteo Liberti per La Voce e il Tempo in uscita il 29/06/2017 con data 02/07/2017

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Londra, Parigi, Bruxelles, gli ultimi capitoli del terrorismo jihadista – e non solo – in Europa: attacchi magari ‘fai-da-te’, condotti da soldati del Califfo ‘last minute’, arruolati online e non addestrati, ma che lo stesso amplificano la paura, anche quando non provocano vittime. E l’Italia, che non è stata finora colpita, anche per l’opera di prevenzione attenta delle forze dell’ordine, non si sente sicura.

Un rapporto dell’Ispi, l’Istituto di studi di politica internazionale di Milano, e un sondaggio studiato in collaborazione con RaiNews e condotto dall’Ipsos analizzano l’evoluzione della minaccia e come essa viene percepita in Italia. Il rapporto s’intitola ‘Jihadista della porta accanto. Radicalizzazione e attacchi jihadisti in Occidente’. Il sondaggio, che dal 2014 ha scadenza trimestrale, tasta il polso dell’opinione pubblica, che cosa si sa, si pensa e, soprattutto, ci s’immagina della presenza del nemico fra di noi.

Le conclusioni del rapporto non sono affatto rassicuranti: nonostante, le difficoltà del sedicente Stato islamico, l’Isis, che sul terreno, tra Iraq e Siria, sta subendo sconfitte probabilmente irreversibili, e che avrebbe pure perso il suo leader, l’autoproclamato califfo Abu Bakr al-Baghdadi, è prevedibile che le conseguenze della radicalizzazione si protraggano nel tempo. E’ perciò necessario dare risposte sia hard, tra cui un consistente aumento della cooperazione tra i servizi di intelligence, che soft, come l’affinamento di migliori campagne di contro-radicalizzazione e di de-radicalizzazione.

Quanto agli italiani, il terrorismo non è una loro ossessione: la crisi economica e occupazionale continua a preoccuparli ben di più. Tuttavia, la percezione della minaccia è crescente e l’approvazione dell’operato delle autorità per contrarla resta alto, ma è in calo. Gli intervistati nel sondaggio tendono a sovrastimare il numero delle vittime degli jihadisti in Occidente ed a sottostimare quello nei Paesi più colpiti – nel 2015, cinque Paesi, Iraq, Siria, Afghanistan, Pakistan e Nigeria hanno registrato quasi i tre quarti delle vittime di terrorismo al Mondo -; e, inoltre, condizionati dai media, e dal populismo di molti leader politici, sovrastimano di molto il ruolo ‘terrorista’ di migranti e rifugiati. Tre italiani su quattro, infine, sono contrari alla sospensione di alcuni diritti civili per arginare meglio il fenomeno e aumentare i controlli sulle comunità islamiche.

Tre fasi di attacchi jihadisti – Nella storia degli attacchi terroristici di matrice jihadista il rapporto individua tre fasi principali, con l’11 Settembre 2001 e il 2011 a fare da spartiacque. Fino all’inizio del XXI Secolo, gli attentati di matrice islamica apparivano sporadici e non collegati l’uno all’altro da un disegno strategico, erano pochi e relativamente poco intensi – con eccezioni, come le stragi alle ambasciate Usa di Nairobi e Dar es Salam –.

Gli attacchi all’America dell’11 Settembre 2001 cambiano la percezione e la consapevolezza: mentre la guerra al terrorismo viene portata in Afghanistan e, in modo insensato in Iraq, gli attentati sono d’elevata intensità, ma poco frequenti – Madrid 2004, Londra 2005 -. Il fenomeno sembrava in fase di stabilizzazione e, ad accrescere l’ottimismo, contribuirono le Primavere arabe, viste in Occidente come un’occasione per la democratizzazione dei Paesi del Nord Africa e del Medio Oriente che avrebbe potuto smorzare il fuoco fondamentalista.

Invece, il 2011 ha segnato l’inizio di un’escalation culminata nel 2014, anno della proclamazione dello Stato islamico: non solo è aumentato il numero degli attentati in Occidente, ma anche il numero di arresti per appartenenza a gruppi terroristici di stampo jihadista, mentre compariva il fenomeno, prima quasi sconosciuto dei foreign fighters. In Europa, gli arresti sono saliti dai 122 del 2011 ai 687 del 2015: il numero è quasi raddoppiato di anno in anno e il trend è ancora crescente, anche perché l’attenzione dell’intelligence e delle forze dell’ordine s’è acuita.

Dal 2014 ad oggi, gli attacchi terroristici jihadisti in Occidente sono avvenuti al ritmo quasi costante d’uno circa al mese, per un totale di 51 attentati. Gli attentatori identificati sono stati 65, due le donne.

Solo nell’8% degli attacchi è emerso un impulso diretto da parte dello Stato Islamico, mentre il 26% delle azioni è stato pianificato dai cosiddetti ‘lupi solitari’, individui influenzati dalla propaganda – spesso online – jihadista, ma che non hanno avuto contatti diretti con i miliziani dell’Isis o con sue cellule terroristiche. La maggior parte degli attentati (66%, i due terzi) è stata compiuta da individui che hanno avuto contatti con lo Stato Islamico ma che hanno agito in maniera autonoma, almeno all’atto pratico.

Senza sottovalutare l’indottrinamento e la radicalizzazione presso comunità ‘estremiste’ o in carcere, lo studio dell’Ispi conferma che il contatto tra terroristi ‘fai-da-te’ e jihadisti avviene sempre più spesso attraverso i social network, cui seguono scambi di messaggi operativi – attraverso comuni app di messaggistica criptata come WhatsApp e Telegram – tra l’aspirante attentatore e quello che si configura come un vero e proprio ‘virtual planner’, ovvero una sorta di addestratore a distanza che aiuta a preparare l’azione. I ‘virtual planner’ fanno parte o hanno contatti con lo Stato Islamico e spesso sono membri del Emni, il servizio di intelligence dell’Isis che può contare sull’esperienza d’ex agenti segreti del regime baathista in Iraq di Saddam Hussein.

Dove, come e quando colpiscono i terroristi – Gli attentati jihadisti censiti sono avvenuti in appena otto Paesi occidentali: in Europa, a tutto il 2016, Francia (17), Germania (6), Regno Unito (4), Belgio (3), Danimarca (1) e Svezia (1); e in America Stati Uniti (16) e Canada (3). Nel 73% dei casi, gli attacchi sono stati commessi da cittadini del Paese colpito, ma solo nel 18 % dei casi si trattava di ex foreign fighters rientrati in Occidente. Non sorprende il fatto che siano però questi ultimi ad aver organizzato gli attentati più intensi forti dell’esperienza bellica in Siria o Iraq.

Un altro dato interessante è quello numero di convertiti all’Islam: essi costituisco il 17% degli autori d’attentati – l’America pesa più dell’Europa in questa statistica -. Nel Vecchio Continente si nota un’interessante asimmetria: in Francia, dove i numeri assoluti sono più alti, quasi un foreign fighter su quattro è un convertito all’Islam, mentre solo il 4% degli attentati jihadisti sul suolo francese è stato fatto da un ‘neo-musulmano’.

Chi sono gli jihadisti della porta accanto – Nonostante numerosi studi resta difficile tracciare l’identikit dello jihadista in Europa: in più di un caso su tre gli attentatori siano stati in carcere prima di entrare in azione, anche se, in genere, non per crimini di terrorismo ma piuttosto per droga, armi o aggressioni; più in generale il 57% degli attentati, quasi tre su cinque, hanno precedenti penali e bel l’82% era noto alle autorità. Non ci sono studi dettagliati sulla radicalizzazione in carcere, ma ci sono elementi per ipotizzare una certa fertilità dell’ambiente carcerario per le istanze fondamentaliste.

I processi di radicalizzazione sono comunque caratterizzati da elementi personali particolari, talora unici. Colpisce che la maggior parte degli attentatori e dei foreign fighters ha un livello d’istruzione elevato (almeno l’equivalente del nostro diploma di scuola superiore). Uno studio del 2016 condotto dalla Banca Mondiale su un campione di 331 ‘reclute’ dell’Isis ha riscontrato che  il 69% aveva almeno un diploma di scuola superiore.

Nella narrazione mediatica, emergono spesso correlazioni tra carenze d’integrazione e radicalizzazione. Il rapporto dell’Ispi rende questo racconto più complicato e frastagliato. Tra i Paesi con la più alta frequenza di foreign fighters pro capite ce ne sono dell’Europa centro-settentrionale,  come Svezia e Danimarca, che tradizionalmente dedicano impegno e risorse all’inclusione sociale.

Anche dal punto di vista qualitativo, l’efficacia delle politiche di integrazione in quei Paesi è più alta che nei Paesi del Mediterraneo, dove però il numero di Foreign Fighters pro capite è sensibilmente più basso: in Svezia risultano 300 casi di foreign fighters a fronte di una popolazione di 9,5 milioni, in Italia ne risultano 122 casi a fronte di una popolazione di oltre 60 milioni.

Questi dati non escludono in assoluto il livello d’integrazione come fattore che influenza i processi di radicalizzazione ma di sicuro lo ridimensionano. Vi sono evidentemente altre condizioni rilevanti.  Una è la nascita e il radicamento di centri, o ‘hub’, che offrono un riferimento agli individui in fase di radicalizzazione, soprattutto quando è presente un leader carismatico in grado di guidare l’individuo nel cammino di radicalizzazione. Spesso questi centri si creano intorno a strutture o gruppi  già esistenti e organizzati, come moschee radicali o gruppi salafiti radicali.

In altri casi, sono stati segnalati network più estesi, come quello di Shiaria4, che sarebbe lo strumento di radicalizzazione e reclutamento principale in Belgio, rivolto in particolare e immigrati musulmani di seconda e terza generazione. E ci sono pure esempi di radicalizzazione ‘bottom up’, ovvero gruppi in cui gli individui, spesso uniti da origini e storie simili, contribuiscono ognuno alla radicalizzazione dell’altro.

Per l’Italia, sono almeno due le possibili spiegazioni del basso numero di foreign fighters. La prima è che il bacino principale per la radicalizzazione e il reclutamento dei combattenti stranieri è quello degli immigrati di seconda o terza generazione, relativamente ridotti nel nostro Paese, divenuto meta dei flussi migratori da meno tempo rispetto ad altri Paesi come Francia o Germania. La seconda è l’efficacia finora dell’azione di prevenzione delle autorità politiche e di sicurezza.

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gphttps://www.giampierogramaglia.eu
Giampiero Gramaglia, nato a Saluzzo (Cn) nel 1950, è un noto giornalista italiano. Svolge questa professione dal 1972, ha lavorato all'ANSA per ben trent'anni e attualmente continua a scrivere articoli per diverse testate giornalistiche. Puoi rimanere connesso con Giampiero Gramaglia su Twitter

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