A caldo, Trump non aveva twittato: s’era notato, forse gliel’avevano impedito, legali e consiglieri. Ma ieri mattina, appena sveglio, il tweet gli è partito: “Comey è una gola profonda”, che voleva essere la stroncatura dell’audizione dell’ex direttore dell’Fbi davanti alla Commissione Intelligence del Senato. In realtà, il tweet evoca i peggiori spettri di un presidente americano: il Watergate, l’impeachment, la battaglia da Davide contro Golia di due cronistelli e d’un funzionario esacerbato contro il Potere. Che crolla, colpito a morte.
La prossima pietra nella fionda potrebbe finire in fronte al genero consigliere di Donald Trump, Jared Kushner. Sarà anch’egli interrogato dalla Commissione Intelligence del Senato tra fine giugno e inizio luglio: l’Fbi considera Kushner, che non è indagato, “persona d’interesse” nel Russiagate, sia per i suoi rapporti con l’ex consigliere per la Sicurezza nazionale Michael Flynn, che è indagato, sia per incontri suoi personali con esponenti russi. L’attenzione si concentra sui colloqui di Kushner con Sergei Gorkov, presidente della Vnesheconombank, una banca di proprietà dello Stato russo. L’obiettivo – si ipotizza – era creare un canale di comunicazione riservato e diretto tra Trump e Vladimir Putin, di cui Gorkov è amico.
Non ci voleva un guru della comunicazione per capire che il tweet sulla “gola profonda” era un autogol. Anche se nasce dal tentativo di screditare Comey come una talpa infida e sleale, animata dal desiderio di vendetta per essere stato licenziato.
Le affermazioni di Comey? “falsità, bugie”. Il presidente come ne esce? “Totalmente discolpato”. L’analisi ‘pro domo sua’ di Trump non attenua le polemiche e le illazioni del giorno dopo, mentre Marc Kasowitz, l’avvocato personale del magnate presidente, annuncia l’intenzione di denunciare Comey per fuga di notizie: ha ammesso di avere diffuso alla stampa, tramite un amico, il memo d’una sua conversazione riservata col presidente, in cui riferiva le pressioni subite per ammorbidire l’indagine sul Russiagate, l’intreccio dei contatti tra consiglieri di Trump ed emissari del Cremlino.
Comey spiega di avere così voluto innescare la nomina sul Russiagate di un procuratore speciale indipendente, com’è poi avvenuto. E precisa pure che il memo non era classificato: diffondere informazioni non classificate non è in genere considerato un reato, né il presidente aveva esercitato il privilegio esecutivo, che protegge con il segreto le sue conversazioni, per bloccare la deposizione di Comey.
E’ però finita sotto processo, proprio ieri, Reality Leigh Winner, contractor della National Security Agency accusata di avere passato ai media materiale classificato, cioè un rapporto sulle attività d’hackeraggio russe in campagna elettorale: la donna potrebbe avere rubato altri segreti, prima dell’arresto avvenuto nei giorni scorsi. Ma la sua vicenda non c’entra nulla con Trump e Comey.
La politica valuta le prossime mosse. Anche i democratici sono cauti: “Non c’è dubbio che Trump ha abusato del proprio potere”, afferma Nancy Pelosi, leader dei democratici alla Camera. “Resta, però, da vedere” se le azioni del presidente configurano quell’ostruzione alla giustizia che può davvero condurre all’impeachment, E su questo i giuristi rimangono divisi.
In attesa di conseguenze più pesanti, o meno, su Trump s’abbatte l’ironia di amici e avversari. Se lo speaker della Camera, Paul Ryan, repubblicano, ascrive “all’inesperienza” del presidente il modo in cui ha gestito la vicenda Comey, la Pelosi si dice “preoccupata per l’idoneità” di Trump a svolgere i suoi compiti. “Dormire di più potrebbe essere una soluzione per lui”, visto che i tweet più micidiali arrivano a notte fonda o all’alba.
Fra i difensori d’ufficio indesiderati del presidente, s’ascrive il senatore russo Alexiei Pushkov, che liquida come “una grossa bolla” tutte le affermazioni di Comey: “Non aiuteranno ad avviare l’impeachment”. Certo, la sua sortita non fuga i dubbi sulla ricerca di connivenze tra Trump e Putin.
Sui fronti della politica internazionale, si torna a parlare di un incontro a tre a Washington sul Medio Oriente: il 3 luglio, Trump e i leader israeliano Netanyahu e palestinese Abu Mazen. Nell’attesa, Trump telefona ad al-Sisi, un altro bell’amico.