Donald Trump, beato lui!, è convinto di avere fatto ‘Bingo’ nella guerra al terrorismo, scatenando l’Arabia saudita e le monarchie del Golfo contro il Qatar, un vaso di coccio doppiogiochista, ma imbottito di gas e petrolio, e contro l’Iran, il bersaglio grosso. Invece Trump ha scoperchiato il vaso di Pandora dei risentimenti arabi e musulmani, molto peggio di una faida corsa, e ha così innescato un domino che – è angosciosamente facile prevedere – non lascerà a lungo indenni gli interessi americani nel Golfo. Quanto all’Europa, è da tempo oggetto d’attacchi di cellule più o meno organizzate e cani sciolti. Ma l’escalation del terrore può avvitarsi in una spirale senza fine.
Né giova la sensazione di disagio che si percepisce a Washington, dove il presidente Trump sceglie il nuovo direttore dell’Fbi, Christopher Wray, alla vigilia dell’hearing in Congresso sul Russiagate di James Comey, il direttore licenziato. Chi può fidarsi fino in fondo d’un alleato che fa il gradasso, ma cambia spesso cavallo e si disfa dei consiglieri appena non lo assecondano?
Nel Golfo, la situazione è in rapidissima evoluzione. Vediamo come si delinea il risiko degli amici / nemici in una Regione dove l’ambiguità è regola e l’opacità è virtù.
In Siria, tutti sono contro il sedicente Stato islamico – il che vale pure in Iraq -. Però i russi sono lì soprattutto a difesa del regime del presidente al-Assad, loro amico, e gli iraniani e gli hezbollah loro alleati pure. Mentre i turchi sono lì soprattutto per tenere sotto controllo i curdi, gli unici a battersi davvero sul terreno contro i miliziani jihadisti: Ankara teme che acquistino troppa autonomia e che trovino sponde per le loro ambizioni di uno Stato indipendente.
I turchi hanno un passato non remoto di connivenza con il Califfo: dalla frontiera turca, arrivavano all’Isis foreign fighters ed armamenti; e di lì usciva il petrolio. E i turchi hanno pure un passato non remoto di ostilità ai russi che, per difendere al-Assad, non fanno troppa distinzione fra integralisti e ‘moderati’, ivi compresi i turkmeni molto vicini ad Ankara. Poi Erdogan e Putin hanno deciso d’essere amici: una recita a soggetto già incrinata da screzi.
Gli americani? La loro coalizione, dove la Francia è molto attiva, si limita ad attacchi aerei contro gli jihadisti, con errori di tiro frequenti a detrimento dei civili, mentre la presenza sul terreno si limita a qualche commando.
Il ‘padrone di casa’ è l’esercito lealista siriano, molto attivo nel riprendere il controllo di Aleppo e di Homs, bonificandone i quartieri sotto il controllo dell’opposizione al regime, ma meno efficace contro gli jihadisti, a parte la battaglia di Palmira, persa, ripresa, ripersa, ripresa di nuovo.
In Iraq, la situazione è un po’ meno intricata, perché la Russia se ne tiene fuori e la Turchia, che voleva ingerirsi con una presenza militare nel Nord-Est, ovviamente in funzione anti-curda, è stata bruscamente disincentivata a farlo. Contro l’Isis, qui c’è in prima linea, per quel che conta, l’esercito regolare iracheno, insieme alle milizie sciite iraniane o filo-iraniane; le operazioni aeree, invece, vengono condotte in massima parte dalla coalizione coagulata intorno agli Stati Uniti.
Qui, come in Siria, il supporto delle monarchie saudite è nullo o quasi, perché qui, più che in Siria, il contrasto all’Isis è vissuto come una guerra degli sciiti iracheni contro i sunniti iracheni, che, padroni del Paese, pur essendo minoranza, durante il regime di Saddam Hussein, sono stati emarginati e repressi dai governi sciiti successivi. L’attuale premier al-Abadi cerca di attenuare contrasti etnico-settari, ma non ha ancora fatto breccia. Ed è proprio in Iraq che il sostegno diretto o indiretto del Qatar, ma non solo, ai miliziani sunniti, cioè agli jihadisti, si manifesta, in funzione essenzialmente anti-sciita.
Nello Yemen, una coalizione sunnita costruita da Riad, e da cui il Qatar è stato appena espulso, sta combattendo, con scarsa efficacia, l’insurrezione huthi sciita sostenuta dall’Iran: il Paese resta spaccato in due e se ne ipotizza di nuovo la divisione. Qui, tutto parrebbe chiaro: insorti sciiti e Iran contro regime sunnita e coalizione sunnita. Troppo semplice: il fronte sunnita interno non è affatto compatto, con l’attuale presidente Hadhi osteggiato dal suo predecessore Saleh; e la coalizione è tutt’altro che unita. Qatar a parte, kafkianamente accusato di essere al contempo pro-jihadisti e pro-iraniano, ci sono frizioni anche tra Arabia saudita ed Emirati arabi uniti che hanno nello Yemen interessi non collimanti.
Il Golfo è il teatro di riferimento di tutti questi conflitti. L’Arabia saudita e le monarchie del Golfo, compreso il Qatar, avevano appena celebrato i riti d’una rinnovata amicizia con gli Stati Uniti, basata su una serie di scellerati baratti accettati dall’America di Trump: loro vendono energia e comprano armi per 110 miliardi di dollari dagli Usa in dieci anni; in cambio, ottengono mano libera sul fronte interno – fanno quel che voglio con gli oppositori, che finiscono tutte nella categoria ‘terroristi’, e con la tutela dei diritti dell’uomo e della parità di genere – e s’impegnano a contenere le ambizioni d’egemonia dell’Iran nella Regione – del resto, non aspettavano altro -.
Così l’Iran, che ha fatto un patto nucleare con i ‘5 + 1’ e che ha appena rieletto il riformista Rohani, mostrando volontà di dialogo con l’Occidente, si ritrova sotto attacco terroristico, perché i sauditi fomentano le opposizioni interne, oltre che sotto scacco militare, nello Yemen, dove lo era già. E ciò nonostante sia stato pedina essenziale del contenimento dell’Isis, specie in Iraq.
Fuori quadro, ma non fuori gioco, l’Egitto di al-Sisi, che gioca la carta del rapporto con Trump, e Israele, cui sta bene tutto quello che indebolisce l’Iran e frastaglia il fronte arabo e musulmano. Netanyahu sì ha fatto ‘Bingo’.