C’è qualcosa di anomalo, in questa vicenda, se Vladimir Putin si auto-nomina avvocato difensore d’ufficio di Donald Trump, contro cui – dice – s’è scatenata negli Usa “una schizofrenia politica”. Se gli Usa lo vorranno, la Russia – afferma Putin – è pronta a fornire la registrazione del colloquio tra il presidente americano e il ministro degli Esteri russo Serghiei Lavrov, cui non era presente nessun giornalista americano, ma – cosa anche questa anomala – uno russo sì. Poi il Cremlino precisa che non di nastri si tratta, bensì della trascrizione stenografica: pare che in russo si usi un’unica espressione.
Il premier italiano Paolo Gentiloni, in visita a Putin in vista del G7, da cui il presidente russo sarà per la quarta volta escluso, causa crisi ucraina, si ritrova essere testimone dell’insolito siparietto e abbozza senza interloquire.
La guerra di Trump ai media e all’intelligence, intrapresa fin dal giorno zero della sua presidenza sta dando i suoi frutti: non passa quasi giorno senza che l’intelligence non faccia filtrare ai media rivelazioni imbarazzanti per la Casa Bianca Non s’è ancora attenuata l’eco del Washington Post sulle informazioni segrete fornite da Trump a Lavrov che il New York Times racconta che Trump, già a febbraio, chiese all’allora direttore dell’Fbi James Comey, licenziato la settimana scorsa, d’insabbiare l’inchiesta sui rapporti con la Russia e con emissari del Cremlino dell’allora consigliere per la Sicurezza nazionale, l’ex generale Michael Flynn, “una brava persona”.
Se la storia dei segreti ai russi mette zizzania fra Usa e alleati, ma non è una minaccia per Trump, l’ipotesi di pressioni per insabbiare un’indagine federale può costargli cara. Lui torna a lamentarsi dei media – “Nessun politico nella storia americana è mai stato trattato così male” -, che lo ripagano percorrendo con ostinazione le loro piste. Il senatore McCain, repubblicano, ma anti-Trump, paragona l’intera vicenda allo scandalo Watergate; i democratici parlano di impeachment o evocano altre procedure costituzionali per ‘disfarsi’ del presidente.
E’ il giorno in cui Chelsea Manning, l’eroico marine del primo fiotto di informazioni Wikileaks, viene liberato: gli Stati Uniti fanno i conti con un pezzo della loro storia – l’invasione dell’Iraq e tutti gli orrori conseguenti – e della loro evoluzione sociale – Manning in cella cambia sesso: vi entrò uomo, ne esce donna -. Il marine ha scontato sette anni della lunghissima condanna infertagli per avere rivelato informazioni segrete ed è uscito grazie al perdono datogli dal presidente Obama, come ultimo atto del suo mandato.
Proprio in questo giorno, gli Stati Uniti sembrano avvicinarsi a grandi passi a un altro momento della loro storia, una riedizione del Watergate, lo scandalo che, tra il 1973 e il ’74, condusse alle dimissioni del presidente Nixon, giusto un passo prima dell’impeachment, cioè della rimozione da parte del Congresso.
Il Congresso non ha l’accanimento della stampa, ma non molla la presa. La Commissione d’intelligence della Camera invita di nuovo a testimoniare Comey, che pone la condizione di parlare in pubblico e non a porte chiuse, mentre il Senato chiede tutte le comunicazioni intercorse tra Fbi e Casa Bianca – magari, gli arriva pure buon peso il resoconto stenografico di Putin -.
Quanto agli alleati, la disinvoltura di Trump nel consegnare ai russi informazioni altrui sta creando imbarazzi e malesseri. Specie in Israele, che era la fonte e l’oggetto delle notizie spiattellate – riguardavano la capacità del Mossad di intercettare comunicazioni sensibili -. I media israeliani riferiscono che ci sarà più cautela in futuro nel condividere le informazioni con gli americani.