Donald Trump la mina vagante: non impara l’abc della sicurezza né le regole di base della prudenza (e neppure il galateo della diplomazia). Ricevendo alla Casa Bianca il ministro degli Esteri russo Serghiei Lavrov, la scorsa settimana, gli spiattella dati segreti, informazioni riservate sulle presunte intenzioni dei terroristi integralisti. La fonte è “un governo amico, che non aveva autorizzato la condivisione”.
La storia, pubblicata dal Washington Post, crea un putiferio, per la disinvoltura del presidente, ma pure perché la fuga di notizie prova che, nell’Amministrazione e soprattutto nell’intelligence, c’è chi rema contro.
A incupire il quadro, era anche presente l’ambasciatore di Mosca a Washington Serghiei Kislyak, perno del Russiagate, lo scandalo delle collusioni tra uomini di Trump ed emissari del Cremlino. E tutto ciò avveniva il giorno dopo il licenziamento del capo dell’Fbi James Comey, motivato proprio da contrasti sul modo di condurre le indagini sulla vicenda.
Lo scandalo segna il giorno in cui Trump riceve il presidente turco Erdogan, uno degli uomini forti che gli piacciono: gli conferma amicizia e sostegno contro il terrorismo integralista e pure curdo, anche se c’è, fra i due, lo scoglio Gulen, l’anti-Erdogan che vive in America e di cui Ankara chiede l’estradizione.
Le informazioni divulgate riguardavano il sedicente Stato islamico, in particolare i timori di ricorso ai computer come bombe sugli aerei e la trasformazione dei tablet in armi. La notizia imbarazza la stampa conservatrice: la Fox, più realista del re, inizialmente smentisce quel che Trump rivendica come un diritto e preferisce occuparsi del ritorno in politica di Hillary Clinton, che lancia il gruppo d’azione Onward Together. Il New York Times ci sguazza, con un editoriale dal titolo trasparente: “Quando il Mondo è guidato da un bambino”.
Alcuni dei testimoni dell’incontro con Lavrov si sarebbero accorti che il presidente era andato fuori misura e avrebbero cercato di contenere i danni. All’incontro, c’era un fotografo russo, ma non c’erano media occidentali.
Le reazioni dell’Amministrazione sono ondivaghe, finché lo stesso Trump ammette: “L’ho fatto e avevo il diritto di farlo”. Il generale H.R.McMaster, consigliere per la Sicurezza nazionale, spiega che il presidente ha l’autorità di ‘desecretare’ quel che vuole. Il segretario di Stato Rex Tillerson fa, invece, il pesce in barile: con Lavrov, Trump avrebbe parlato, fra l’altro, degli sforzi comuni contro il terrorismo, ma senza rivelare strategie o segreti.
Repubblicani di rango chiedono spiegazioni alla Casa Bianca: i contatti tra la campagna di Trump ed emissari del Cremlino stanno azzoppando la presidenza e sono al centro di diverse indagini, dell’Fbi e del Congresso, malgrado il presidente le abbia bollate come ‘fake news’. Prima del voto, Trump aveva spesso criticato la Clinton per la leggerezza con cui aveva gestito materiale sensibile, quand’era segretario di Stato. Adesso, il suo comportamento appare paradossale: Dick Durbin, senatore democratico, parla d’azione “pericolosa e imprudente”; Paul Ryan, speaker della Camera, concede a Trump un margine di dubbio, ma afferma che “proteggere i nostri segreti è essenziale”.
Secondo il New York Times, le informazioni rivelate dal presidente provenivano da fonti israeliane. Il che rischia di creare frizioni, a pochi giorni dalla visita che Trump farà in Israele e nei Territori, dopo essere stato in Arabia saudita e prima d’arrivare in Europa. Il timore del Mossad è che i dati possano finire in mani iraniane, mettendo a repentaglio gli agenti israeliani.
La vicenda rischia di minare la fiducia degli alleati negli Stati Uniti, che condividono con la Russia più informazioni e segreti di quanti non ne scambino con loro. Le fonti ufficiali tacciono o restano caute, ma, dall’Oceania all’Europa, fonti anonime s’interrogano sull’affidabilità di Trump e danno l’impressione che l’iniziale diffidenza verso Trump si stia trasformando in sfiducia.
Nella storia, il WP legge anche “un coltello piantato nelle spalle del presidente” dall’intelligence, con cui Trump s’è subito messo in contrasto. E c’è di che alimentare la percezione che Trump sia indisciplinato e inesperto nella gestione degli affari esteri: il suo stile di sparare dal fianco, senza neppure estrarre la pistola dalla fondina, come facevano i cowboys, è un pericolo costante.
L’imprevedibilità e l’impulsività sono un fattore di rischio anche sul fronte coreano, intrecciandosi con le analoghe caratteristiche del dittatore Kim. Che, dopo il test missilistico di domenica scorsa, avrebbe pure lanciato l’attacco informatico che ha colpito mezzo Mondo nelle ultime 72 ore: è solo un’ipotesi, mentre è una certezza la condanna di Pyongyang pronunciata dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu, ventilando l’inasprimento delle sanzioni se ci saranno altri test nucleari e/o missilistici. Ma Kim, che ha fatto il botto in coincidenza con il Vertice sulla Via della Seta a Pechino, non pare impressionato: “Non sottovalutateci: il test è riuscito, il missile può portare armi nucleari”.