Minacce e promesse, per i Cento Giorni di Donald Trump alla Casa Bianca: tamburi di guerra – l’espressione è del New York Times – con la Corea del Nord; e miraggi fiscali per i cittadini, ma soprattutto gli imprenditori, americani. Le minacce – per fortuna – e le promesse restano per ora parole: i fatti della luna di miele del magnate presidente con i suoi elettori sono relativamente pochi. Ma Trump si conferma maestro nello ‘spostare la palla’: se una sua iniziativa s’arena o si rivela controproducente agli occhi dell’opinione pubblica, passa ad altro; e lo fa con spregiudicatezza rispetto ad affermazioni precedenti e con un’unica costante, “la colpa è dei media” – la vignetta è di GianFranco Uber, ndr -. Ad alleati, vicini e rivali chiede essenzialmente di pagare di più, militarmente, commercialmente o economicamente.
Corea del Nord: giochi di guerra pericolosi
In inglese, le manovre militari si chiamano ‘war games’, giochi di guerra. E ‘giochi di guerra’ sono le schermaglie verbali, incessanti da settimane, tra gli Stati Uniti e la Corea del Nord: un po’ come se Trump considerasse Kim III un bersaglio da esercitazione, per addestrarsi a future eventuali prove analoghe. Ma, con due leader così impulsivi e imprevedibili, il rischio non è mai marginale.
Nell’ennesima intervista sui Cento Giorni, alla Reuters, Trump avverte che “la tensione è alta” e ammette che “un grande, grande conflitto con la Corea del Nord è possibile”; fa l’elogio della Cina, che cerca di tenere a freno il riottoso alleato, ma dubita degli esiti della diplomazia di Pechino. E, intanto, fornisce missili-antimissili alla Corea del Sud e mantiene in acque coreane il gruppo navale della portaerei Vinson e un sommergibile nucleare.
Esperti di Dipartimento di Stato e Pentagono, che seguono da decenni le ricorrenti crisi coreane, confidano ai giornalisti che la retorica e il flettere dei muscoli rendono la minaccia più immanente di quanto sia: “Vogliamo che Kim ritrovi il buonsenso, non vogliamo metterlo in ginocchio”. Tutto bene, purché il magnate presidente e il dittatore nord-coreano sappiano dove fermarsi, mentre Cina ed Ue lavorano per riaprire i canali di negoziato chiusi dal 2008. Con Xi, Trump ha cambiano tono e approccio:
Russia, Iran e altri fermenti tra politica e affari
La Corea del Nord non è l’unico cruccio di politica estera, dei Cento Giorni. Washington sta valutando la possibilità di ristabilire le sanzioni contro l’Iran, a dispetto dell’accordo sul nucleare concluso con Teheran nel 2015 – e a rischio di favorire il ritorno al potere dei conservatori nelle presidenziali del 19 maggio -.
E la Russia, dopo lo strappo sulla Siria, è terreno di grattacapi e complicazioni sul fronte interno. Suona male che la Exxon Mobil, di cui era Ceo l’attuale segretario di Stato Tillerson, chieda l’esenzione dalle sanzioni per la joint venture con la Rosneft e le trivellazioni nel Mar Nero; mentre s’aggrava la posizione dell’ex consigliere per la Sicurezza nazionale, il generale Flynn, che avrebbe illegalmente ricevuto somme di denaro da governi stranieri – leggasi Russia -.
Ma non c’è ancora un bandolo nella matassa d’affari e illegalità del Russia-gate, l’indagine dell’Fbi e del Congresso innescata dalle presunte ingerenze dell’amministrazione russa durante la scorsa campagna elettorale americana. La locandina dei personaggi in commedia s’infittisce: secondo l’Ap, Paul Manafort, ex capo della campagna elettorale del candidato Trump, avrebbe segretamente collaborato con Oleg Deripaska, magnate russo dell’alluminio e uomo di fiducia di Putin. E sarebbe pure emerso che l’intelligence russa cercava dal 2013 d’ingaggiare il businessman Carter Page, poi divenuto consigliere di Trump – durante la campagna, andò a Mosca a fare un discorso -.
Meno tasse, meno soldi, più debiti
Dopo che la revoca dell’Obamacare s’era bruscamente arenata in Congresso e che i giudici federali avevano bloccato due volte il bando all’entrata negli Usa di rifugiati e cittadini di Paesi musulmani, il presidente aveva spostato l’attenzione sua e dell’opinione pubblica sulla politica estera: l’attacco alla Siria, le tensioni con Mosca, il confronto con la Corea del Nord.
Ma pure lì Trump è finito in stallo – per fortuna!, ché non sempre una raffica di missili resta senza conseguenze -. E, allora, a compimento dei Cento Giorni, ecco spuntare fuori un pezzo forte dell’agenda elettorale: la riforma fiscale, presentata con molta enfasi, ma già destinata ad avere vita non facile in Congresso.
Ridurre le tasse alle aziende piace ai repubblicani; e semplificare le aliquote piace agli americani, anche se non ci guadagnano molto. Ma le equazioni ‘meno tasse = più crescita e meno evasione”, quindi, a conti fatti, più soldi nelle casse dell’erario, sono tutte da dimostrare. E l’operazione può tradursi in un aumento del debito, che non piace ai repubblicani, e in una riduzione delle prestazioni dello Stato ai cittadini, che non piace ai democratici.
La riforma non dà garanzie di successo, sul piano finanziario ed economico; e, su quello politico, rischia di rivelarsi un boomerang. Della riforma, che per ora è una ‘lista dei desideri’ più che un piano preciso e dettagliato, gli elettori potrebbero soprattutto ricordare che il presidente Trump ha fatto un regalo all’imprenditore Trump e all’1% dei Paperoni d’America.
Vero o falso?, il nuovo Monopoli
Non c’è pace tra i media e il presidente, pur se le polemiche sono meno virulente che Cento Giorni or sono (e i tweet meno accidiosi). Il New York Times, ad esempio, non ha per nulla abbandonato la pista delle cerimonie d’insediamento, dove – ha recentemente ‘intignato’ – “la gente era poca, ma giravano soldi in abbondanza”. Le donazioni a caccia di benemerenze o per sanare divergenze hanno infatti fruttato a Trump 107 milioni di dollari , il doppio che qualsiasi altro suo predecessore.
Nel panorama mediatico americano, Trump ha intanto perso un amico e un alleato: Bill O’Reilly, popolare conduttore della Fox News, è stato accantonato, dopo ripetute accuse di molestie sessuali. Il presidente l’ha pubblicamente difeso e i malpensanti pensano che O’Reilly possa presto entrare nello staff della Casa Bianca, che ha già accolto esuli dai media con trascorsi da molestatori.