Ha cominciato con largo anticipo a celebrare i suoi primi cento giorni alla Casa Bianca, che cadono a fine aprile. Quando non aveva ancora compiuto tre mesi nell’esercizio dei suoi poteri, proclamava su Twitter, la lavagna virtuale di tutti i suoi proclami: “I primi 90 giorni della mia presidenza hanno mostrato il totale fallimento degli ultimi otto anni di politica estera. Com’è vero!”. Ed ha poi dato una lunga intervista all’Ap, dove batte con insistenza proprio su questo tasto: la differenza tra lui e il suo predecessore, quel ‘mollaccione’ di Barack Obama, che non frenò il flusso degli immigrati, non cacciò dal potere il presidente siriano Bashar al-Assad e non convinse gli alleati Nato a pagare di più per la comune sicurezza.
A dire il vero, neppure Donald Trump, 45° presidente degli Stati Uniti, insediatosi alla Casa Bianca il 20 gennaio, è finora riuscito a fare almeno una di quelle cose. Però, sta litigando con il Congresso per farsi dare i soldi per alzare il muro al confine con il Messico, ha lanciato una gragnola di missili su una base siriana e sta ‘mobbizzando’ tutti i leader europei che vanno a incontrarlo a Washington – ultimo, il premier italiano Paolo Gentiloni – con l’impegno di spendere di più nella Nato, centrando l’obiettivo del 2% del Pil per la sicurezza.
I primati che lo distinguono dai suoi predecessori
A Trump, comunque, i primati non mancano, per distinguersi dai suoi predecessori: è il presidente con l’indice di gradimento più basso durante la ‘luna di miele’ con il popolo americano, da quando esistono sondaggi del genere, anche se, dopo fuochi d’artificio e pugni sul tavolo, la sua popolarità è un po’ cresciuta; ed è il presidente che ha firmato più ‘ordini esecutivi’ – l’equivalente americano dei nostri decreti leggi – nei suoi esordi, più di John F. Kennedy che era finora il recordman con 23; ed è anche il presidente che passa più tempo sui campi di golf (gioca una volta ogni cinque giorni, in media, secondo i calcoli di Market Watch, un sito di finanza, il doppio di quanto non giocasse Obama – una volta ogni quasi dieci giorni -). Eppure, Trump criticava spietato l’ ‘etica del lavoro’ di Obama, che non gli impediva di giocare a golf “con tutti i problemi che gli Usa hanno” – e che lui, per ora, non ha risolto -.
Ma dove nessuno lo batte davvero è nell’uso di Twitter: ‘cinguettii’ strategici, a notte o all’alba, che dettano l’agenda dei media – lo strumento, però, è recente e il confronto può solo essere con Obama -. Quanto ai ‘cancri’ dell’informazione del XXI Secolo, ‘fake news’, ‘alternative facts’, ‘post-truth’, Trump ne è un untore. Ma spesso i politici lo sono stati anche in passato, usando gli strumenti di cui disponevano.
Partenza in quarta, poi freno a mano tirato
Partito in quarta, nelle primissime settimane alla Casa Bianca Trump pareva un turbo-presidente: non passava giorno senza che, con una firma e un tratto di penna, non cancellasse qualche decisione dell’Amministrazione Obama. Via il Tpp, il patto di libero scambio dell’area pacifica: basta negoziati sul Ttip, l’analogo patto trans-atlantico; un colpo di freno alla parità dei diritti per Lgtbq; niente fondi per le Ong che includono l’aborto fra i metodi per controllare le nascite; drastici tagli alle norme per la tutela dell’ambiente e l’abbandono di fatto degli obiettivi dell’accordo di Parigi contro il riscaldamento globale.
Pareva tutto facile. Poi, però, le cose si sono complicate. Il provvedimento di blocco dell’ingresso negli Stati Uniti dei rifugiati e dei cittadini di sei Paesi musulmani s’è urtata a due riprese contro giudici federali e lì s’è incagliata – l’Amministrazione non ha scelto la via della Corte Suprema, riconoscendo di fatto la partita persa -. E la revoca dell’Obamacare, la riforma sanitaria di Obama, punto focale di tutte le promesse elettorali, è naufragata in Congresso, nonostante i repubblicani controllino sia la Camera che il Senato. Quanto alla riforma fiscale e al programma per il rilancio delle infrastrutture, più facile annunciarli che farli: la riforma sta per essere presentata in fanfara, ma ci vorrà poi del tempo per perfezionarla.
Le nomine e la squadra: rose e spine
Se la nomina e l’insediamento del giudice mancante della Corte Suprema sono ‘andati in buca’ – Neil Gorsuch ha superato l’esame Senato, ma solo perché i repubblicani, che altrimenti non avevano i numeri, hanno forzato la consueta procedura -, la composizione della squadra di governo s’è rivelata una corona di spine. E molti posti restano vacanti, compromettendo l’ordinaria gestione della cosa pubblica.
Il riflusso post-elettorale del Russia-gate, con l’intreccio delle interferenze russe nella campagna, sempre a danno di Hillary Clinton, e dei magheggi dei consiglieri di Trump con emissari di Putin, ha costretto quasi subito a dimissioni catartiche il generale Michael Flynn, scelto come consigliere per la sicurezza nazionale, mentre le gerarchie nel ‘cerchio magico’ intorno al magnate presidente andavano assestandosi, con la figlia Ivanka e il genero Jared Kushner a guadagnare posizioni e invece il suprematista Steve Bannon a perderne, dopo l’infelice esito di alcune sue iniziative.
La politica estera palestra di voltafaccia
La politica estera pareva una cosa semplice semplice: pappa e ciccia con la Russia; unghie in fuori con la Cina; divido l’Europa e non le bado; combatto il terrorismo, ma sto fuori dal Medio Oriente. Invece, non è proprio stata una passeggiata. Anzi, è su questo terreno che Trump presidente, tale quale il Trump candidato, ha esercitato un tratto saliente dei suoi primi ‘cento giorni’: il voltafaccia.
Faccio la pace con la Russia; anzi no, ci litigo. Il futuro della Siria non è una priorità; anzi no, bombardo al-Assad e voglio che se ne vada perché ha usato i gas contro i suoi nemici che improvvisamente scopro essere miei amici. Bisticcio con la Cina; anzi no, le chiedo di tenere a bada la Corea del Nord, ché, altrimenti, ci penso io con portaerei e sottomarini nucleari. La Nato è obsoleta; anzi no, è utile contro il terrorismo – e se gli alleati pagano la loro quota -.
Elemento costante – e mai tradito – è stato la indubbia fascinazione per gli uomini, o le donne, forti: riceve il presidente egiziano, l’autoritario generale al-Sisi; si congratula con il presidente turco, l’altrettanto autoritario Erdogan, per il successo di misura nel referendum che instrada la Turchia verso un regime presidenziale semi-dispotico; e non mostra repulsione per la candidatura in Francia di Marine Le Pen, che prende i soldi a Mosca, ma è alfiere di quel processo di smembramento dell’Unione che a Trump – l’uomo della Brexit – piace tanto.
L’isolazionista diventa interventista. Con la tentazione di aggiustare le cose del Mondo assestando qualche martellata, visto che quelle dell’America non vanno a posto da sole. I suoi metodi gli hanno già valso un altro record: le ricerche su Google su Terza Guerra Mondiale, e su Guerra Nucleare, non sono mai state così numerose dal 2004, da quando cioè ne esistono statistiche.