In meno di cento ore, una raffica di notizie tutte negative ha distrutto la fragile immagine positiva che una narrativa superficiale aveva dato dell’Unione europea, in occasione del 60° anniversario della firma a Roma, in Campidoglio, nella sala degli Orazi e Curiazi, dei Trattati istitutivi delle allora Comunità europee, la Cee dell’economia, la Ceca del carbone e dell’acciaio e l’Euratom dell’energia atomica.
Il 29 marzo, la Gran Bretagna ha dato il via al negoziato per lo storico divorzio dall’Unione, presentando – a oltre nove mesi dal referendum del 23 giugno 2016 – la domanda di recesso, basata sull’articolo 50 del Trattato di Lisbona. La trattativa potrà protrarsi per due anni, salvo proroghe.
Il giorno prima, la Scozia aveva di nuovo sfidato il Regno Unito: il Parlamento d’Edimburgo avalla un nuovo referendum sull’indipendenza, perché gli scozzesi vogliono restare nell’Ue.
Il 27 marzo, l’Austria aveva rotto il fronte della solidarietà europea sulla questione migranti: chiede d’essere esentata dai ricollocamenti già concordati. Il giorno dopo, analoga richiesta era arrivata dai Paesi del Gruppo di Visegrad, di cui è capofila la Polonia – con Rep. Ceca, Slovacchia e Ungheria -. Bruxelles ammonisce che il mancato rispetto di decisioni comuni “avrà delle conseguenze”.
La Dichiarazione di Roma
Eppure pochi giorni prima, a Roma, il 25 Marzo, i 27 ‘superstiti’ alla Brexit avevano firmato concordi una dichiarazione dagli accenti retorici (“L’unità europea è iniziata come il sogno di pochi ed è diventata la speranza di molti”) e con impegni solenni: “Renderemo l’Unione più forte e più resiliente”; e “Daremo ascolto e risposte alle preoccupazioni dei nostri cittadini”.
I leader dei Paesi dell’Ue e delle istituzioni europee dicono di volere, “per il prossimo decennio, un’Unione sicura, prospera e competitiva”, lungo quattro direttrici: la sicurezza, in primo luogo, una delle cui componenti è una politica migratoria “efficace, responsabile e sostenibile”; la prosperità e la sostenibilità; il sociale; la presenza sulla scena internazionale.
Nella sovraesposizione mediatica del 60° anniversario, movimenti europeisti d’ogni tendenza e centri di studi e di ricerca, organizzazioni non governative e cenacoli politico-culturali, gruppi d’opinione e lobbies, istituzioni e partiti, tutti avevano da proporre un proprio manifesto europeista – o anti-europeista -, che nessuno, da solo, aveva la forza di realizzare. La moltiplicazione di appelli e documenti ha solo accresciuto la sensazione di babele.
Un esercizio di sopravvivenza
Qualcuno ha interpretato la dichiarazione di Roma come un rilancio dell’integrazione, magari scandalizzandosi nei giorni successivi per le promesse tradite.
In realtà, il 25 Marzo, con il Vertice straordinario e le manifestazioni non certo oceaniche, è stata solo una tappa assolutamente interlocutoria: l’Unione non è affondata e non s’è frantumata, come pure rischiava di fare; ma non s’è neppure rilanciata. E’ riuscita a sopravvivere, con il fiato sospeso per i voti in Francia tra aprile e maggio e in Germania a fine settembre. Se ripartirà, l’Ue lo farà solo in autunno, quando i due Paesi chiave dell’integrazione avranno assetti politici stabili. Sempre che il voto francese non l’affossi in modo irreversibile.
Il rischio è che, in questa stasi, l’Unione muoia un po’ di più nei cuori dei cittadini. Ma gli ottimisti leggono nelle presidenziali in Austria del 4 dicembre – vittoria del verde europeista Alexander Van der Bellen sullo xenofobo euroscettico Norbert Hoefer – e nelle politiche in Olanda del 17 marzo – dove solo un elettore su otto ha votato un partito contro l’Ue – il segnale che l’ondata di piena anti-europea sta decrescendo, ad eccezione che in Italia – non a caso il Paese fanalino di coda del treno della ripresa -.
E, nell’agenda dell’Unione, c’è sempre la ruota di scorta d’un altro Vertice, per alimentare le attese: i leader dei Paesi dell’Ue dovevano ancora incontrarsi a Roma che s’erano già dati appuntamento sulla Brexit il 29 aprile a Bruxelles e sull’immigrazione e la riforma del diritto d’asilo a fine giugno.
L’unanimità un fattore di debolezza
Certo, l’Unione s’è presentata a Roma perdendo i pezzi – la Gran Bretagna sta per andarsene – e battendo in testa: vive gli strascichi della crisi più grave e più lunga del secondo dopoguerra; non trova parata al flusso delle migrazioni; ha perso efficacia e non fa più presa sui cittadini. Ma resta senza alternativa.
I sovranisti, in linea con lo spirito del tempo, raccontano le loro ‘fake news’, perché smantellare l’Unione e ritornare agli Stati nazionali sarebbe una condanna all’irrilevanza per tutti gli europei e la consegna del Mondo al bipolarismo economico e commerciale Usa – Cina e politico e militare Usa – Russia. Ed era agghiacciante la contemporaneità tra il Vertice del 60° e gli scodinzolamenti alla corte di Putin a Mosca della leader del FN Marine Le Pen, alla ricerca di legittimazione e, soprattutto, soldi.
Il fatto che la dichiarazione di Roma abbia avuto in calce le firme di tutti i leader presenti, anche della riluttante premier polacca Beate Szydlo, che minacciava d’astenersi, è solo apparentemente una buona notizia. In realtà, significa che i passaggi più significativi sono stati smussati a tal punto da renderli quasi impercettibili, dalla volontà di un’Unione “sempre più stretta” alla possibilità che alcuni dei 27 spingano l’integrazione più avanti di altri, con una formula già prevista dai Trattati e con un meccanismo che potrebbe adattarsi, in particolare, al settore della difesa. … di qui in avanti, prosegue ricalcando stralci di pezzi già pubblicati …