A corto di voti per la defezione dei repubblicani più conservatori, Donald Trump evita la sconfitta battendo in ritirata: i leader del suo partito alla Camera ritirano in extremis il disegno di legge controverso sulla riforma sanitaria che doveva sostituire l’Obamacare, la riforma di Barack Obama. E’ lo stesso presidente a chiedere loro di farlo.
Risultato: il voto previsto alla Camera, e che avrebbe molto probabilmente visto la contro-riforma di Trump andare sotto, salta. Il presidente prova subito a fare la cosa che gli riesce meglio quand’è in difficoltà: spostare la palla, cambiare discorso. “Ora avanti sulle tasse” – e sulle infrastrutture. E se un giorno l’Obamacare esploderà, “allora forse i democratici saranno disponibili a un accordo”, dice Trump parlando con il Washington Post e il New York Times.
In realtà, lo stop all’ ‘annulla e sostituisci’ dell’Obamacare è una sconfitta per il presidente, la prima ad opera del Congresso, dove pure il suo partito ha comode maggioranze alla Camera e al Senato. Trump è il terzo presidente degli ultimi quattro a sperimentare le difficoltà di una riforma sanitaria: negli Anni Novanta, Bill Clinton non riuscì a fare passare la sua, messa a punto dall’allora first lady Hillary; e Obama spese in pratica tutto il suo primo mandato per portare a casa un risultato che Trump vuole ora smantellare.
Farlo, però, non è indolore, né socialmente, né politicamente. Il nuovo testo, ora ritirato, avrebbe lasciato, a termine, 14 milioni di americani senza copertura sanitaria, stando ai calcoli degli esperti del Congresso. I moderati fra i repubblicani lo consideravano elettoralmente rischioso, ma erano alla fine disposti a votarlo. Gli ultra-conservatori e quelli vicini al Tea Party lo consideravano, invece, non abbastanza radicale e non erano pronti ad avallarlo: per loro, la salute non è un diritto, ma un bene che i ricchi si pagano e i poveri non hanno.
Dopo giorni di serrati negoziati e compromessi abortiti, ieri la decisione di ritirare la contro-riforma è giunta improvvisa, quando ci si preparava alla conta in aula. E così una delle promesse di Trump, su cui aveva costruito buona parte della sua campagna elettorale, resterà non mantenuta, almeno per qualche tempo: il New York Times sospetta che l’auto-stima del magnate possa soffrirne, ma pare eccessivo sperarlo.
L’immagine del presidente abile negoziatore, capace di trovare accordi per realizzare la sua agenda, ne esce comunque scalfita; ma ne esce pure ammaccata la figura del leader del partito, e speaker della Camera, Paul Ryan, che non è un fan di Trump, ma che era al suo fianco in questa battaglia; e tutta la vicenda non giova al Partito repubblicano, perché genera dubbi sulla capacità di governare dell’Amministrazione. Il voto era già stato rinviato giovedì e Ryan aveva avvertito la Casa Bianca: “non abbiamo i voti”: l’episodio non pare avere aggravato le frizioni tra il presidente e lo speaker.
Dopo mesi di batoste, a partire dall’Election Day, l’8 novembre, i democratici incassano la loro prima vittoria dell’era Trump; ma lo fanno senza muovere un dito. Tutto accade dentro il perimetro dei repubblicani. Adesso, ci vorrà del tempo perché un nuovo progetto venga formulato: praticamente impossibile che l’Obamacare sia archiviata, come promesso, nei primi cento giorni della presidenza Trump, che cadranno a fine aprile.
La battuta d’arresto non frena la spocchia del presidente su altri fronti, l’autorizzazione al Keystone, contestatissimo oleodotto sulle terre indiane, e le polemiche su intelligence e Russia-gate. Adesso, c’è da aspettarsi che Trump se ne inventi una delle sue per spostare l’attenzione: i tweet della notte potrebbero essere creativi.